Domenico Attianese, la figlia del poliziotto eroe: «Ucciso sotto i miei occhi. I killer di mio padre arrestati dopo 38 anni»

Fu freddato a Napoli durante una rapina nel 1986

Domenico Attianese, la figlia del poliziotto eroe: «Ucciso sotto i miei occhi. I killer di mio padre arrestati dopo 38 anni»
di Gianluca Cordella
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Sabato 10 Febbraio 2024, 00:22

È il 4 dicembre del 1986. Nella gioielleria Romanelli di Pianura, quartiere della periferia occidentale di Napoli, irrompono due rapinatori che iniziano a saccheggiare il negozio. Ad accorgersi del tutto è Carla, una ragazzina di 14 anni, figlia non dei titolari ma del sovrintendente capo della Polizia di Stato, Domenico Attianese. La giovane allerta subito il papà che, pur non essendo in servizio, interviene di corsa. Il resto è una tragedia rimasta senza colpevoli per 38 lunghissimi anni. I malviventi reagiscono all’intervento del poliziotto e aprono il fuoco, uccidendolo sotto gli occhi della figlia e della moglie.

Poi scappano a bordo di un motorino e si dileguano nel nulla. Fino a un anno fa, quando gli inquirenti che di quel caso non si sono mai dimenticati fanno un passo decisivo per chiudere uno dei cold case nazionali: dal sistema centrale della Scientifica, dove vengono archiviate tutte le impronte prese durante il fotosegnalamento, spunta il cosiddetto “match”, una corrispondenza con le impronte rilevate sulla scena del crimine nel 1986. Si riaprono immediatamente le indagini, vengono riesaminate le documentazioni e riascoltati i testimoni. Lunedì scorso l’inchiesta della procura di Napoli, guidata da Nicola Gratteri, arriva all’arresto di Giovanni Rendina, 60 anni, e Salvatore Allard, 59. E i due ora devono rispondere di omicidio volontario.

È un cerchio che, finalmente, si chiude per la famiglia del sovrintendente capo. «Mi piace pensare che sia un messaggio di speranza per le tante famiglie delle vittime della criminalità organizzata che ancora non conoscono i nomi dei responsabili della morte dei propri cari», racconta adesso Carla, quella bimba che ha ancora negli occhi la scena dell’omicidio. 


Lei con questa assenza di nomi ha dovuto combatterci a lungo...
«Ho dovuto farlo molto di più con l’idea dell’assenza di mio padre.

Ho imparato a vivere con distacco la vicenda giudiziaria perché il rischio dell’ossessiva fame di giustizia è che poi possa trasformarsi quasi in una voglia di vendetta. E non volevo cadere nel tranello».


Come e quando ha saputo della nuova pista?
«Qualche mese fa sono stata ascoltata di nuovo come persona informata dei fatti. Insomma, avevo capito che era successo qualcosa. L’attesa è finita lunedì scorso, quando mi hanno detto dei fermi, prima che la notizia diventasse pubblica».


Cos’ha provato?
«Un enorme senso di gratitudine per la polizia. Che è stata bravissima all’epoca nel fare tutti i rilievi in modo meticoloso e ora nel mettere a frutto quel lavoro con le nuove tecnologie per cercare la verità. È importante che venga fatta giustizia e non lo dico solo per la mia famiglia: penso al messaggio universale che arriva sia ai parenti delle altre vittime che ai criminali stessi».


Torniamo a quel 1986, a quella chiamata a suo padre. Si è mai pentita di averla fatta?
«Assolutamente no. Papà ci ha cresciuto coltivando il valore della legalità, era il nostro esempio. Io ero una ragazzina ma ho fatto quello che per me era più naturale, quello che avrebbe fatto lui: agire per provare a sventare quella rapina. È bello pensare che l’avrebbe fatto chiunque al posto mio».


Anche se le cronache quotidiane spesso raccontano il contrario, di atti violenti con presenti che guardano altrove.
«Sono cose molto personali. Soprattutto quando si ha a che fare con la criminalità organizzata. Ma papà mi ha insegnato a non avere paura e io non ne ho mai avuta». 


Cosa ricorda ancora di quel giorno?
«Ero poco più di una bambina...».


Ha odiato chi le aveva portato via suo padre?
«No, mai. Per chi compie questi atti provo pena, perché è il loro essere brutali che li qualifica. Non ho mai sprecato i miei sentimenti per loro, non lo meritano».


Già una volta aveva sperato di conoscere i colpevoli, giusto?
«Sì, c’era già stato un processo ma si era chiuso nel 1996. I due imputati risultarono estranei alla vicenda».


Perché, rispetto a tanti altri casi di cronaca, la storia di suo padre è rimasta lontana dai media? 
«Perché la mia famiglia non ne ha mai parlato. Io non l’ho fatto per tanti anni nemmeno con i miei amici. Poi ho avuto la fortuna di conoscere persone che mi hanno fatto capire il valore della testimonianza. E allora ho capito che sbagliavo e che parlare invece è un dovere, perché queste storie portano dei messaggi. Le mafie sono un cancro e magari con le nostre parole possiamo far capire ai ragazzi delle zone più a rischio, specie nel Sud Italia, che la malavita non è l’unica opzione possibile». 


Anche se parlarne comporta uno sforzo emotivo costante, duro da sostenere per chi poi ha dovuto affrontare questa tragedia così giovane....
«Sì ma il dato di fatto è che lo sforzo emotivo è comunque quotidiano. Ogni giorno penso che papà non era presente alla mia laurea o che non ha conosciuto i suoi nipoti. Basta un niente. Un film, una canzone... E allora tanto vale usare questo sforzo emotivo per una buona causa».
 

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