“E' la storia di Sarah”, opera prima della trentaduenne francese Pauline Delabroy-Allard, tra i cinque finalisti del premio Goncourt 2018 e ora finalmente arrivata a noi con Rizzoli, è una sorta di diario sentimentale che si snoda tra musica, poesia, multiformi paesaggi interiori. Tutta la narrazione ha un sapore crepuscolare, il susseguirsi delle stagioni si risolve in un eterno autunno malinconico, qua e là interrotto da grandi slanci di gioia che si affievoliscono per poi riprendere vigore ad ogni incontro tra le due donne, ad ogni abbandono, incomprensione, riappacificazione, sorpresa e di nuovo distanza che sembra incolmabile: «L’autunno arriva senza preavviso. Sarah irrompe con una marea di cornetti e brioche, dice venite, tesori, andiamo al mercato. Mi bacia, propone di preparare un’insalatona, vuole fare l’amore in continuazione, assolutamente in continuazione. Mi lascia dormire solo quando mi ammalo...». Poi, poche pagine dopo, la narratrice: «E’ trascorso un anno, un anno di musica, un anno di brividi, un anno di zolfo. Dice che vuole lasciarmi, che la vita che conduciamo è troppo tumultuosa, è una tempesta. Il capitano abbandona la nave. Non sa che piango sotto la doccia tutte le mattine...».
Pauline Delabroy- Allard riesce così a rapire e a farci avvertire l’altalena terribile dell’amore, volendo, in realtà, descrivere quello che avviene nell’animo femminile quando si è ad un punto di svolta, alle prese con decisioni inderogabili in una età in bilico tra la libera giovinezza e l’imbrigliata maturità.
La protagonista, non a caso, sceglie infine di staccare i piedi da terra, di provare a volare prendendo le distanze da tutto e tutti, anche dalla sua famiglia. Ad accoglierla, una Trieste malinconica ma madre affettuosa: «Se torno a casa, se riesco a tornare a casa, non dovrò mai dimenticare l’infanzia ritrovata che ho scoperto qui, a Trieste...Perché qui c’è il tempo ritrovato? E’ questo che sono venuta a cercare...».
E Sarah, la sua Sarah, dov’è? Forse sta tutta in un verso di Stendhal che parla di Trieste, citato dall’autrice: «Lo chiamo vento forte quando si è costantemente occupati a tenersi stretti il cappello, e bora quando si ha paura di rompersi un braccio».
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