Mario Ajello
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Vacanze di Natale/Cortina-Capalbio, il derby radical pop deciso al botteghino

di Mario Ajello
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Sabato 6 Gennaio 2024, 00:08 - Ultimo aggiornamento: 23:14

Ci risiamo. Il derby Capalbio-Cortina, lo snobismo radical chic (che non è neanche lontanamente parente della profonda eleganza di «Le chic et le charme», meravigliosa canzone-manifesto di Paolo Conte) contro lo Strapaese italiota che non piace al New York Times e ai salotti casarecci che lo scimmiottano, la seriosità moraleggiante contro la leggerezza pre e post ideologica, il profondismo supponente, autoreferenziale e carente al botteghino contro la spensieratezza intelligente ma a torto non ritenuta tale che, dal punto di vista cinematografico, ha avuto in «Vacanze di Natale» un gran campione.

Proprio il capolavoro dei fratelli Vanzina, riapparso e di nuovo acclamatissimo, ha riacceso questa disputa storico-culturale-antropologica e anche assurdamente politica che sembrava essere stata superata una volta per sempre. Perché che cosa vuoi dire a un film stra-cult, altro che «sessista e volgare» come semplifica il NYT, in cui c’è questo dialogo ambientato in un anti-romanticismo ampezzano con in sottofondo «Grazie Roma» di Antonello Venditti: «Secondo te, Toninho Cerezo dove lo festeggia il Capodanno?», «Eh, già, ci stavo proprio pensando mentre vomitavo»? E il proverbiale Jerry Calà del «non sono bello, piaccio»? 


Resta ancora «Vacanze di Natale» il migliore trattato sociologico sull’Italia di 40 anni fa. Ma non solo su quella. Perché non è vero che è un film sugli anni ‘80, lo è anche sul dopo e sul sempre, come capita ai classici. E’ un’opera che segna lo spartiacque tra ideologia e post-ideologia, tra moralismo e laicismo, tra la tendenza bacchettona a giudicare sempre e comunque secondo parametri politicamente corretti (quelli newyorkesi-capalbiesi) e il gusto di capire senza paraocchi, senza schemi, con una pietas verso l’Italia normale, più portata all’edonismo che all’intellettualismo, più desiderosa di emanciparsi che gelosa del proprio status saldamente acquisito e sprezzantemente difeso.

 
E dunque, c’è più democrazia, ascensore sociale, divertimento e progressismo in «Vacanze di Natale» - con il borgataro che va a Cortina, con gli arricchiti di Frascati improvvisamente folgorati dalle Tofane ma guai a mettere gli sci perché l’importante è «magnà», con la signora Erminia Marchetti che esclama «ammazza come pizzica!» appena s’imbatte nel freddo del Cadore, piuttosto che nelle critiche di chi vorrebbe che l’Italia di allora e di sempre fosse altro da sé: un po’ agorà e un po’ tutta Capalbio, sinistrese e woke (ma suvvia!) e non quella immortalata eternamente, spiritosamente, drammaticamente, dai fratelli Vanzina. Altro che cinepanettone. «Vacanze di Natale» è commedia all’italiana allo stato puro.


Perciò occorre resistere-resistere-resistere contro la cancel culture che aspirerebbe a eliminare, o si accontenta di svalutare, questo pezzo di noi stessi.

E fa benissimo Luca Guadagnino su Film Tv, e non è il solo, a elogiare questo racconto per immagini e a rifiutarsi di accettare la damnatio memoriae che si vorrebbe imporre a questa riflessione su ciò che siamo e su ciò che vorremmo, o che volevamo, essere. 


Le nuove-vecchie stroncature del film vanziniano, spiazzate dal rinnovato successo commerciale della pellicola che coincide evidentemente con un bisogno e con una riflessione del pubblico (proprio ciò che accade per «Ancora domani» di Paola Cortellesi), dicono molto dell’Italia di oggi. Quella in cui la cosiddetta cultura dei migliori, senza avere l’umiltà di voler capire meglio, cerca d’imporre canoni e gusti, vellicata dall’America delle università progr, dai salotti radical, dalla minoranza presunta illuminata (la stessa che fa le pulci all’Occidente anti-invasione putiniana dell’Ucraina e a Israele che reagisce come può e magari anche male alla strage del 7 ottobre e allo stesso tempo stronca Cristoforo Colombo perché “conquistadore” e Winston Churchill perché “colonialista” nonostante fosse stato il primo a capire il pericolo hitleriano ovvero ad aver visto quasi in solitaria l’ecatombe del mondo) e dai giri giusti dell’Europa. 


Insomma, come si fa a non capire che Carlo e Enrico Vanzina hanno raccontato l’Italia per quello che era e che - verrebbe da dire: purtroppo! - non è più? Un Paese in cui il macellaio fa la vacanza a Cortina, in cui esiste la mescolanza tra “alto” e “basso”, mentre adesso le diseguaglianze, a furia di sentire parlare di «lotta alle diseguaglianze», sono spaventosamente aumentate? Era l’Italia, e molti ancora ne ridono perché ne riconoscono la veridicità, in cui la signora Covelli dice al figlio, Christian De Sica, che gli ha preparato la pasta e lui: «Bucatini?», «No, fusilli!», «Aggiudicati!». E Samantha, la ragazza americana, addirittura pensava di essere innamorata di uno così. 


L’assoluta mancanza di retorica giudicante, perché il giudizio è nei fatti narrati, nelle battute, nei personaggi, l’assenza di volgarità (prenda nota il New York Times: «Anche questo Natale ce lo siamo tolti dalle palle!» chi non lo ha pensato? E non è un’espressione terribile) e l’approccio disincantato e libero ai discorsi e ai rapporti tra le persone ne fanno un manifesto neo-pop che la sinistra, quella vera, dovrebbe imparare a memoria. Se non vuole rinchiudersi definitivamente in una rocca vetero-maremmana che, anche vista da qui e non siamo a Cortina, risulta distante e isolata.

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