Paolo Balduzzi
​Paolo Balduzzi

Nuovi mestieri/ L’importanza della laurea anche per chi non la utilizza

di ​Paolo Balduzzi
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Giovedì 4 Aprile 2024, 00:38
Aurora è una giovane laureata in Economia che, dopo aver provato a usare il suo titolo di studio nel mondo del lavoro, ha preferito rimetterlo nel cassetto e dedicarsi alla sua vera passione: le api. Matteo invece è un ex ingegnere che gestisce un rifugio sull’Appennino mentre Giorgio è un architetto che ha lasciato un posto fisso e ora vive, o prova a farlo, dei suoi fumetti. Mentre i nomi di queste persone sono inventati, le storie che le riguardano sono vere. E, come queste, molte altre. Casi particolari, certo: ma decisamente non rari, che vengono facilmente assurti agli onori della cronaca e che catturano velocemente la nostra attenzione. Cosa ci colpisce, in queste notizie? Principalmente due cose. La prima è scoprire che ci sono individui, di solito giovani, che sono disposti ad assumersi un bel rischio pur di poter svolgere un lavoro che davvero amano e che li realizza. Nella migliore delle ipotesi, tifiamo per loro e ne invidiamo il coraggio. Nella peggiore, al contrario, pensiamo che siano un po’ troppo idealisti e, con immotivata superiorità, sappiamo già come andrà a finire: cambieranno idea dopo le prime difficoltà. La seconda cosa che ci colpisce è il pensiero che, in fin dei conti, una laurea serva davvero a poco. Su questo, non ci sono dubbi: si tratta di una sciocchezza. Basta però intendersi su quale sia il significato di un titolo di studio. Una visione troppo economicista della vita tende ad attribuire alle cose solo un valore monetario. Una laurea, quindi, avrebbe senso solo se il flusso di redditi che ne scaturiranno supererà i costi sostenuti per ottenerla. Che noia! E che delusione, nella maggior parte dei casi: il “premio della laurea”, così è chiamato il differenziale dello stipendio medio tra chi ha terminato l’Università e chi si è fermato al diploma, in Italia è piuttosto basso: supera di poco il 25% mentre è oltre il 50% sia nella media dei paesi Ocse sia in quella dell’Unione europea. Il dato cambia a seconda del settore, del genere e dell’età, penalizzando, in particolare, proprio i lavoratori e le lavoratrici più giovani. Messa così, per molti avrebbe senso concludere che studiare serve a poco. 
Tuttavia, bisogna considerare altri elementi, che non sono sempre quantificabili. Il primo è il valore dell’avere un’alternativa. Un titolo di studio universitario, per quanto non utilizzato, è comunque segno della capacità di un individuo di imparare. In termini più tecnici, è un segnale della produttività di un individuo, indipendentemente dal fatto che studiare abbia o meno insegnato qualcosa. Dovesse andare male con le api (o il rifugio, il taxi, i fumetti, e così via), non ci si presenterebbe sul mercato del lavoro con un curriculum povero.
Inoltre, la laurea crea un valore di conoscenza e di relazioni che possono sempre tornare utili prima o poi nella vita. Per questo è anche sbagliato demonizzare alcune Facoltà solo perché, secondo i critici, “sfornerebbero disoccupati”. Le Università formano (non sfornano) persone e, semmai, il problema italiano è che non ne formano a sufficienza. Tra i 30-34enni italiani, solo il 27 per cento è in possesso di un titolo di una laurea: una quota nettamente inferiore alla media europea del 42 per cento. Certo, prima di iscriversi è bene conoscere e riconoscere i rischi. Se al momento, per esempio, i laureati in Lettere non sono richiestissimi, è comunque inutile iscriversi a Ingegneria se la matematica è una propria debolezza. L’esito più probabile è che gli studi saranno abbandonati dopo un paio d’anni, al più tardi, che il giovane si sentirà incapace e che l’esercito dei Neet (coloro che non studiano, non si formano e non lavorano) guadagnerà un soldato in più. Molto meglio invece perseverare in ciò che piace, con la consapevolezza che non necessariamente si lavorerà nel campo specifico oggetto di studio. Senza dimenticare, inoltre, che il mondo del lavoro cambia velocemente e in direzioni spesso non prevedibili. E un laureato con poco mercato oggi potrebbe invece averne moltissimo in futuro.
In bocca al lupo quindi a tutti i Matteo, i Giorgio e le Aurora d’Italia. E c’è da scommettere che, malgrado le loro scelte possano suggerire il contrario, si ritengano essi stessi fortunati di aver studiato.
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