Mario Ajello
Mario Ajello

Il Natale di Roma. La festa in sordina in un Paese senza visione

Il Natale di Roma. La festa in sordina in un Paese senza visione
di Mario Ajello
4 Minuti di Lettura
Lunedì 19 Aprile 2021, 23:57 - Ultimo aggiornamento: 20 Aprile, 01:54

Il Natale di Roma che non diventa una festa italiana pienamente vissuta come fatto nazionale è sempre stato il segno di un’anomalia nel rapporto tra la Capitale e il Paese. Si stenta ancora, in maniera auto-penalizzante, a identificarsi davvero nella città che guida l’Italia e la sordina che è stata messa ancora una volta, e non solo a causa del Covid, all’anniversario della fondazione dell’Urbe 2774 anni fa - qualche forza politica ne parla? perché nessun leader vi fa cenno? oltre all’attenzione da parte del Campidoglio non sarebbe utile un coinvolgimento istituzionale più largo? - ha qualcosa non solo di smemorato ma in fondo anche di negazionistico.

Si sottovaluta, o addirittura si tenta di cancellare, quanto Roma può ancora, anzi deve, valere come mito che lega il passato al futuro. Non c’è rinascita possibile, dell’Italia post-pandemia, che non sia incentrata sulla convinzione che guidarla spetta a una città che conserva nel suo cromosoma, da quando venne fatta nascere il 21 aprile del 753 avanti Cristo, l’ideale di grandezza e l’aspirazione alla gloria. «Senza quegli ideali e quelle aspirazioni - così ha scritto Rosario Romeo, massimo biografo di Cavour e storico di solida cultura liberale - non ci sarebbe stata neppure l’Italia». Eppure, questa evidenza storica si tende a sottostimarla o a evitarla. Non facendo un torto alla retorica del Natale di Roma ma alla riflessione su che cosa potrà essere il nostro Paese alla luce della storia di Roma.

Il richiamo all’eredità di Roma non deve valere dunque come una suggestione rituale. Ma come un invito alla consapevolezza e come una spinta operativa. Roma, proprio perché è nata come costruzione in continuo divenire fin dall’inizio del regno di Romolo seguito da sei sovrani (tre sabini e tre etruschi) e dal resto della grande storia, può essere la Capitale della rinascita e dello sviluppo, il centro di un messaggio di laicizzazione della politica - nel senso di urgenza del fare, senza impacci ideologici - e il ricordo del Natale di Roma non serve certo a schiacciare l’attuale metropoli sul suo passato ma a ricordarle, in prospettiva, che l’aratura del solco primigenio da parte di Romolo è diventato rito di ogni fondazione e rifondazione. Quindi ogni romano, ogni italiano, può legittimamente sentirsi autorizzato a celebrare il 21 aprile come una sua festa e riconoscersi in essa.

Grandi sono allora le potenzialità, dal punto di vista simbolico, di questa ricorrenza. Ma mai come stavolta il Natale di Roma si lega - se spiritualmente ben inteso - all’idea pragmatica di rinascita.

I romani festeggiavano questa ricorrenza proprio come quella della nascita di una persona.

Non a caso Francesco Rutelli ha intitolato il suo nuovo, documentatissimo e appassionante libro Tutte le strade partono da Roma: perché è proprio così, è da qui che si progetta. E c’è tutto un bagaglio, c’è tutto un patrimonio, risalente alla nascita dell’Urbe e alla storia che ne è derivata, che ci fa dire che mentre Atene ama preferibilmente le idee e i concetti metafisici, l’Urbe ama invece le cose e la realtà. Insomma i romani hanno sempre prediletto una saggezza pratica e incarnata nell’azione, una prassi esistenziale. Questo lega, nel nome di Roma, il trascorso con l’avvenire.

E il Natale di Roma - che soltanto il fascismo seppe valorizzare, mentre l’Italia repubblicana se ne dimenticò e fu criticata da Aldo Moro che in questo vedeva come al nostro Paese «manca una visione della sua Capitale» - ha la forza, per chi lo sa intendere, di non far dimenticare il brodo di coltura e di non farci sconnettere dai miti della fondazione che sono quelli che danno un senso al cammino futuro.

Durante il Ventennio, il Natale di Roma, già dal 1923, venne istituzionalizzato come festa del lavoro (al posto del primo maggio). E così si ricongiungono due idee: Roma e il lavoro. Questo è un nesso capace, se ci si libera da vecchi paraocchi e si guarda avanti, di ridiventare attualissimo. È quello che può mettere la Capitale - e non si veda quale altra città possa svolgere questo ruolo, stante la crisi profonda in cui Milano si è fatta precipitare dal flop politico-sanitario al tempo del virus - alla guida di una ripartenza in cui tutto sarà diverso da ciò che è stato e ci si augura che nel mondo nuovo l’Italia e Roma si rivelino capaci di giocare da protagonisti. Secondo la loro vocazione che viene da lontano e nel caso dell’Urbe da lontanissimo, da oltre due millenni fa. 

Per la celebrazione del 21 aprile 1921, il grande storico Gioacchino Volpe aveva scritto: «Roma aiutò gli italiani a costruire la loro italianità». È ancora così, ma Roma anche per la sua forza dei suoi natali - a cui occorre fare riferimento particolare in questa fase, e altro che oblio! - deve intendersi come città-Europa e come città-mondo. I miti servono insomma come iniezioni di orgoglio. Una politica che li evita, per paura di restarne schiacciata, perché non si sente all’altezza della sfida che la storia di Roma continua a porre a tutti, è una politica che rischia l’inconsistenza.
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA