Giuseppe Maria Berruti

L'analisi/ La giustizia (effimera) delle aule dei tribunali

di Giuseppe Maria Berruti
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Martedì 4 Luglio 2023, 01:04 - Ultimo aggiornamento: 07:40

Da che ho memoria, assisto allo scontro tra pezzi della politica e della giustizia. Cambiano alcuni temi della controversia. Ma in genere la forza politica che costituisce la maggioranza é critica o addirittura ostile al mondo della giustizia. Quella che costituisce l’opposizione, è schierata a difendere l’esistente.


Nel nostro sistema costituzionale i magistrati rispondono solo alla legge. Il che, in alcuni casi, si riduce nel fatto che non rispondono a nessuno. Giacché la legge comunque deve essere impersonata per poter funzionare. Tuttavia il dato formale è questo. I giudici rispondono alla legge, dunque non possono essere rimproverati per il merito della loro decisione, ma per il modo nel quale l’hanno presa.


C’è poi la giustizia civile. Che è l’attuazione della legge nella convivenza degli interessi. Lo strumento giudiziario è quello della lite. Nella quale si controverte per interessi specifici, ai quali bisogna dare una veste giuridica. Insomma i litiganti sostengono una lettura della legge conforme al loro comportamento. Ciascuno di essi porta l’argomento che ritiene e, nei modi che la legge ha stabilito, debbono consentire al giudice di capire, e dire quale dei due comportamenti è effettivamente conforme a diritto. Tutto questo comporta tempi ritmati dalle esigenze tecniche di accertamento e di prova. Va da sé, che in un Paese nel quale il senso dello Stato é una mera espressione culturale, non ci si acquieta ai primi gradi. Si va fino in Cassazione. La giustizia perciò è assediata dalla domanda di giustizia.
Il tema che tuttavia unifica nella considerazione politica generale la giustizia tutta intera, senza distinzione tra civile e penale, è dato dal fatto che la legge non chiede “per favore” a nessuno. Impone. Esercitando direttamente, o mettendo nelle mani del privato che ha vinto, la sua propria forza. Imponendo sacrifici, talvolta sofferenze. Questo dato è comune al funzionamento della giustizia intesa negli Stati di diritto.

Vi sono diversi modo di intendere la nozione di Stato di diritto.

Quella che connota la convivenza degli italiani, è caratterizzata, anzitutto, da una estesa forma di garanzia di fronte al pericolo dell’abuso del potere giudiziario. Proprio perché si è detto, la giustizia comporta la possibile coattività dei comportamenti. Né confligge con la naturale spinta alla libertà.


Poi ci sono i magistrati. La magistratura non è un abito che si cuce sulla pelle per tutta la vita. Essa è legata ad uno stato di servizio. Cessato il quale non si è più magistrati. Tuttavia è chiarissimo che il mio modo di ragionare è fortemente influenzato dal fatto di essere stato magistrato.

Allora che fare di fronte alla ricorrente banalizzazione dei problemi legati all’esercizio della giurisdizione? Io credo che si possa ragionare da parte di magistrati, avvocati, notai, professori di diritto (ai quali compete la funzione altissima di illuminare la strada dei pratici) tenendo a mente che non esistono principi che la legge non può cambiare. Che men che mai esistono principi immutabili nella giurisprudenza. La quale è un modo di governare la convivenza, che deve rispondere alle regole che la fondano. A quelle costituzionali ed a quelle che la cultura giuridica mette a punto. Non esiste la realtà di una giustizia perfetta, capace di non sbagliare. La giustizia porta il proprio percorso su un terreno che è culturale, benché ad essa non spetti di fare cultura, e fà la Storia benché ai giudici non competa la scelta storico politica. E se le giurisprudenze sbagliate si pagano care, quelle corrette durano fin quando il principio che le ha ispirate viene riconosciuto.


Sempre prevarrà una tesi su un’altra. Riconoscere la caducità dei traguardi che si raggiungono può essere un utile esercizio di umiltà.

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