Francesco Grillo
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Bilancio tragico/ Il fallimento americano costato come tre Recovery

di Francesco Grillo
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Mercoledì 18 Agosto 2021, 00:12

Ci sono due aspetti che sorprendono della più lunga guerra della storia degli Stati Uniti: il costo dell’operazione e il risultato finale. Secondo la stima della “Brown University”, che utilizza i numeri del Pentagono, l’impegno militare in Afghanistan è costato 2.261 miliardi di dollari. La spesa media per militare impiegato è arrivata, secondo il Congresso, a circa 3,9 milioni nel 2015. La stima non copre, però, i costi - come le pensioni ai veterani - che continueranno a pesare nel futuro sul bilancio federale. Una cifra simile - per capirne le proporzioni - a quella dell’intero debito pubblico che condanna l’Italia da vent’anni ad una crescita incerta. E però spendendo tre volte quanto, ad esempio, l’Europa immagina di investire su se stessa (Ngeu) per trasformarsi dopo la pandemia, gli americani fuggono, ora, dal fallimento. Se l’idea iniziale era quella di conquistare consenso esportandovi un modello, l’operazione è così poco riuscita che i talebani hanno riconquistato l’intero Paese senza aver trovato neppure un accenno di resistenza prima ancora della data (31 agosto) entro la quale era previsto che gli ultimi marines lasciassero Kabul. A bordo di un elicottero bimotore della Nato che si è lasciato dietro 180 mila persone morte in vent’anni e milioni di ragazze spaventate.

La guerra più fallimentare della storia americana: i confronti possibili sono quello con l’operazione gemella in Iraq (che cominciò più tardi – nel 2003 – e finì prima – nel 2011) e, soprattutto, con la guerra in Vietnam. L’altrettanto costosa occupazione dell’Iraq riuscì però a consolidare un’infrastruttura statale che esisteva ancora prima dell’invasione e che ha migliorato più di qualsiasi altro Paese del mondo (secondo la classifica sugli “Stati Fragili”) la propria stabilità dal 2017, anno in cui l’esercito locale (insieme ai curdi e con il supporto dell’aviazione americana) riuscì a sconfiggere l’Isis. Ancora maggiore fu, come raccontano alcuni dei film più belli, l’impatto del Vietnam non solo sull’economia americana ma sulla stessa fiducia in quello che era un sogno di una generazione: in Indocina i marines, però, si trovarono a combattere un nemico molto più forte sia dal punto di vista militare che ideologico e a imporre il ritiro fu un’opposizione interna così forte da diventare un movimento che cambiò il mondo.

Quella dell’Afghanistan è, dunque, una storia unica nata da una reazione rabbiosa – i bombardamenti di Kabul cominciarono meno di un mese dopo dall’attacco dell’11 settembre senza aspettare alcuna autorizzazione delle Nazioni Unite né della Nato – e continuata senza che nessuno ne riuscisse ad esprimere una strategia all’altezza dello sforzo. È significativo, del resto, che dopo vent’anni sia l’accordo del febbraio dello scorso anno nato da uno storico incontro tra gli Stati Uniti di Trump e i talebani a Doha, sia la recente dichiarazione dell’8 luglio del presidente Biden sul ritiro continuano a dichiarare che l’unico obiettivo è stato solo quello di «catturare quelli che ci hanno attaccato l’11 settembre» ed evitare che l’Afghanistan possa essere «la base dalla quale si costruiscono minacce terroristiche alla sicurezza degli Stati Uniti».

È Biden a riconoscere esplicitamente che gli americani non hanno mai davvero voluto costruire una “nazione nuova” e che, tutt’al più, l’idea era di addestrare l’esercito locale. Insomma, siamo in presenza di una guerra che nessuno ha veramente voluto, la cui finalità era di catturare Osama bin Laden (operazione questa conclusa più di dieci anni fa, ma in Pakistan) e che, però, è continuata per altri dieci anni trascinata avanti dall’inerzia e dalle lobby che in una guerra dimenticata hanno trovato una vera e propria miniera d’oro (pagata dai contribuenti americani).
E, però, così come successe all’Unione Sovietica che in Afghanistan bruciò se stessa, nel cuore desolato dell’Asia sono, adesso, gli americani a rischiare di inciampare nell’evidenza che gli imperi finiscono quando il costo di controllarne i confini ne supera i benefici.

E, tuttavia, per gli Stati Uniti e la Nato un’alternativa esiste. In Afghanistan, infatti, ci sono stati due grossi problemi: si è speso molto di più del necessario per la guerra; e molto male per tutto ciò che avrebbe potuto preparare la pace. Una strategia da ventunesimo secolo può risolvere entrambi i problemi.

In primo luogo, sorprende anche solo aver pensato di dover catturare terroristi occupando con centomila militari un Paese che ha un’estensione due volte grande come l’Italia, confina per più di 5 mila chilometri con altri sei Stati ed è un’estensione dell’Himalaya. Fu Barack Obama a ricordare in uno dei suoi più riusciti dibattiti elettorali (con Mitt Romney) che non sia necessariamente un problema per un esercito avere, oggi, meno navi da guerra o meno aerei che nel 1945. I terroristi oggi si cercano con sciami di piccolissimi droni che entrano in un Paese alla stessa quota usata dagli uccelli migratori che sono, assolutamente, fuori dalla portata di caccia potentissimi e, sempre di più, inutili per i conflitti.

In secondo luogo, non è pensabile intervenire senza provare a conquistare il consenso delle persone. Ci riuscirono, del resto, gli americani con il Piano Marshall. Ci siamo riusciti, paradossalmente meglio, noi europei o gli inglesi costruendo dighe e istituzioni nelle colonie. Potrebbero riuscirci i cinesi conquistando l’Afghanistan senza combattere – come raccomandava 2500 anni fa il generale Sun Tzu nell’Arte della guerra – costruendovi la ferrovia di cui il Paese è privo. Ridurre la più alta mortalità infantile e ricominciare dagli ospedali affidandoli alle Organizzazioni non governative che in questi territori arrivano con passione ed esperienza: sono questi gli investimenti che funzionano in una terra mutilata da 42 anni di guerre che hanno abituato intere generazioni a non riconoscere più il valore della vita. 

È un disastro quello che si sta consumando a Kabul. Lo sarebbe di meno se lo utilizzassimo per ricordarci che è il sonno della ragione che genera i mostri con i quali continueremo a convivere. E che il nostro sonno è quello di un mondo che, troppo presto, ha inteso che la Storia fosse finita.
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