Alessandro Campi
​Alessandro Campi

La Nato e la Russia/ Il significato politico della sfida di Macron

di ​Alessandro Campi
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Lunedì 18 Marzo 2024, 00:20

Negli ultimi tempi Emmanuel Macron ha detto e ripetuto che l’Europa sul fronte orientale deve prepararsi ad ogni scenario, compreso il peggiore di tutti: l’escalation bellica generalizzata. Il sostegno finanziario e logistico-militare dato sinora all’Ucraina potrebbe non rivelarsi sufficiente per contrastare l’aggressione russa. A quel punto, non resterebbe che l’invio di proprie truppe. D’altro canto, Putin non può e non deve vincere questa guerra. E visto che quest’ultimo non pone limiti alle sue minacce e non accetta mediazioni, lo scontro diretto sul campo rischia di diventare inevitabile. Per aver assunto simili posizioni, si è accusato il presidente francese di essere un guerrafondaio, ovvero un realista che del realismo ha dimenticato la regola fondamentale: la prudenza, a partire da quella verbale. Le sue dichiarazioni sul possibile coinvolgimento della Nato nella guerra russo-ucraina (quella stessa Nato della quale nel 2019 aveva dichiarato polemicamente la “morte cerebrale”) sono apparse inopportune e irrituali anche ai suoi alleati. Ma allora perché quest’insistenza davvero poco diplomatica?


L’impressione è che le sue parole siano state stimolate da un misto di nervosismo politico (fondato e appena dissimulato), di ambizione politica (ormai storicamente fuori luogo) e di mal celata paura del futuro (questa sì da prendere sul serio). Cominciamo dallo stato di irritazione e malumore nel quale Macron obiettivamente si trova a causa di ciò che sta accadendo entro i confini francesi. In effetti, il suo consenso interno non è mai stato così basso. I sondaggi, in vista del voto europeo di giugno, danno il suo partito al di sotto del 20%, con la destra lepenista avanti di quasi dieci punti. Senza contare che negli ultimi anni – dai gilet gialli alla marcia dei trattori, passando per gli scioperi contro la riforma delle pensioni – ha dovuto affrontare una protesta sociale crescente e spesso rabbiosa.


E’ una difficoltà che investe la persona, ma soprattutto il suo progetto politico. Il macronismo si è imposto sulla scena, con le presidenziali del 2017, come una bizzarra forma di populismo delle élite. Giocando sulla stanchezza e le contraddizioni delle tradizionali famiglie politiche (dai gollisti ai socialisti), egli ha imposto una miscela ideologica di successo fatta di centrismo tecnocratico, riformismo dall’alto, efficientismo burocratico, europeismo spesso dogmatico, liberalismo non privo di venature autoritarie, battaglie innovative sul versante dei diritti civili, giovanilismo e superamento delle vecchie distinzioni tra destra e sinistra. Ma dopo quasi dieci anni, quella miscela non è bastata a frenare, da un lato, il declino del modello francese di Stato sociale basato in passato su generose politiche redistributive e, dall’altro, la crescita elettorale dell’estrema destra nazionalista sua avversaria storica. Macron fa bene ad essere nervoso: il bilancio del suo movimento-partito, quando si tornerà a votare per l’Eliseo, potrebbe rivelarsi un fallimento che nessun successore, ammesso possa averne uno, vorrà intestarsi.


Quanto all’ambizione come molla delle sue recenti posizioni muscolari, essa nasce da almeno due fattori.
Il primo è la solita pretesa dei capi di Stato francesi, dacché è nata la Quinta Repubblica, a considerare la Francia il cuore politico-strategico dell’Europa, nonché un membro di diritto del club ristrettissimo delle grandi potenze. Se non fosse che da De Gaulle a oggi il mondo è cambiato a tal punto da non giustificare più le sue pretese egemoniche dentro e fuori i confini europei. Quanto all’arma atomica, la Francia la possiede ma sa bene di non poterla utilizzare come minaccia strategica in modo unilaterale. Come arma somiglia dunque ai muscoli dei culturisti in palestra: una forma di esibizionismo che non spaventa nessuno.


Il secondo fattore ha a che fare col vuoto di guida politica che si è creato in Europa dopo l’uscita di scena di Angela Merkel.

Macron, pensando anche al suo futuro dopo l’abbandono forzato dell’Eliseo, ambisce evidentemente a colmarlo. Da quando è scoppiata la guerra tra Russia e Ucraina, il suo attivismo non ha conosciuto soste. In una prima fase si è proposto come mediatore con Mosca senza aver avuto alcun mandato per questo ruolo. Fallito il tentativo, anche per l’indisponibilità della Russia a qualunque trattativa, ha finito per ergersi a capofila dell’oltranzismo euro-atlantico. Ma in entrambi i casi la sua aspirazione a ritagliarsi un ruolo nei futuri libri di storia rischia di rovinare quanto c’era di buono nel suo antico disegno politico. Ad esempio la difesa dell’unità dell’Europa contro il particolarismo nazionalista cavalcato dai populisti. Con queste sortite solitarie, infatti, è lui per primo a mettere in difficoltà il tentativo dell’Europa di avere, se non una voce sola, almeno una strategia unica.


Così come non fa bene all’Europa l’idea che per farla funzionare serva un direttorio informale di due o tre Stati capaci di dettare la linea a tutti gli altri. La diarchia franco-tedesca poteva andare bene in tempo di pace politica e stabilità economica. Dalla pandemia alla guerra, passando per la crisi energetica, si è capito che per la soluzione di problemi comuni servono ricette condivise da tutti. 

Resta l’ultimo punto, in effetti il più serio. Macron è un leader preoccupato e impaurito, la cui apparente aggressività nasce dal timore per un futuro politico quanto mai pieno di incognite. Come gli altri suoi colleghi europei teme, giustamente, il vuoto di leadership che la crisi interna agli Stati Uniti sta creando nel mondo delle grandi democrazie occidentali. Cosa fare se nel prossimo futuro dovesse profilarsi un crescente disimpegno politico-militare americano dal teatro europeo-ucraino? Gli europei saranno in grado, materialmente e in termini di volontà politica, di assumersi la conduzione diretta di quel conflitto?


Se dovesse tornare alla Casa Bianca Donald Trump quale atteggiamento si dovrà tenere, visto il suo annuncio di non volerne più sapere di offrire protezione all’Europa senza contropartite? (A proposito, bene sta facendo Giorgia Meloni, nell’incertezza su come finirà il voto di novembre, a tenere al tempo stesso rapporti leali con l’Amministrazione Biden e una linea di dialogo con l’entourage di Trump: si chiama politica).
In una fase drammatica della storia del mondo gli Stati Uniti si sono rivelati una nazione profondamente divisa al suo interno e politicamente senescente: non fa più paura ai suoi nemici storici, che la sfidano impunemente, e non è più in grado di rassicurare i suoi amici, che ne temono la deriva isolazionista. Alla luce di questo scenario, le parole di Macron sul possibile intervento della Nato, più paventato che desiderato, assumono in effetti un significato particolare. Non sono l’espressione di uno spirito irresponsabilmente bellicista. Sono piuttosto un invito politico doppio: ai partner europei affinché guardino in faccia la realtà e si assumano le loro responsabilità sino in fondo; all’alleato americano affinché non rinunci, per un malinteso senso dell’interesse nazionale, ai suoi storici vincoli di lealtà e collaborazione con i Paesi ai quali è storicamente legato da una comunanza profonda di valori e ideali.


Il regalo più grande che le democrazie possano fare in questo momento alle autocrazie è mostrarsi divise tra loro, pessimiste sulla loro tenuta interna e indecise sugli obiettivi generali che intendono raggiungere. Se questi timori ha voluto esprimere Macron, come non condividerli? 
 

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