Alessandro Campi
Alessandro Campi

Nuovi incarichi/Il messaggio del Colle per la futura maggioranza

Nuovi incarichi/Il messaggio del Colle per la futura maggioranza
di Alessandro Campi
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Giovedì 20 Maggio 2021, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 21 Maggio, 00:16

Mattarella ha parlato ai piccoli perché i grandi intendessero: non è disponibile per un secondo mandato al Quirinale. Mandato peraltro temporaneo, visto che una simile soluzione sarebbe dovuta servire, nei piani un po’ cervellotici di chi nei giorni scorsi l’ha vagheggiata, a tenere calda la poltrona per Draghi: da eleggere Capo dello Stato dopo la fine del suo mandato come Presidente del Consiglio.


La ragione ufficiale del diniego mattarelliano è la stanchezza legata all’età. La ragione vera, come anche i bambini a cui parlava hanno capito, è l’insostenibilità di una sua riconferma dal punto di vista politico-istituzionale. Un secondo mandato sostanzialmente a tempo (come è stato nei fatti con Giorgio Napolitano) suona già come un’offerta-richiesta irricevibile per ragioni di galateo costituzionale. Renderebbe poi il reinsediamento al Colle, un evento in sé politicamente eccezionale per quanto formalmente possibile, una procedura o prassi quasi ordinaria, da utilizzare come precedente per tutti i futuri inquilini del Colle. Sarebbe infine la certificazione, non della crisi profonda o dello stallo, ma del completo fallimento del sistema politico-partitico italiano dopo le attese (e le oggettive novità) prodotte dalle elezioni del marzo 2018 e andate, ahinoi, ben presto largamente deluse.

Da allora, peraltro in una fase storica tra le più buie e dolorose per l’Italia (e il mondo), si sono alternati tre governi. Quello cosiddetto del rinnovamento (in primis generazionale) a guida grillino-leghista. Quello giallo-rosso. E quello in carica di salvezza o unità nazionale nato, su volontà diretta del Capo dello Stato, proprio perché i partiti che avevano animato le due precedenti maggioranze non erano più in grado di controllare le loro divisioni interne (Pd e M5S) o di esprimere una linea politica a misura dei problemi reali del Paese (la Lega salviniana finita prigioniera della sua macchina propagandistica).


Ai partiti che hanno risposto al suo appello (includiamoci Forza Italia, sempre più alle prese con le ansie del dopo-Berlusconi) Mattarella ha chiesto di approfittare della copertura istituzionale e politica offerta da una personalità come quella di Draghi – un tecnico che diversamente da quanto accaduto con Mario Monti ha accettato di avere con sé ministri di provenienza partitica – per rimettersi in ordine dal punto di vista organizzativo, per definire meglio i loro obiettivi e programmi (considerate le grandi sfide che aspettano il Paese nei prossimi anni), per provare a recuperare il rapporto di fiducia con i cittadini e per mostrarsi più responsabili e cooperativi.

 
Quest’ultimo punto significa, per i partiti, soprattutto una cosa: andare oltre lo spirito partigiano e accettare di collaborare laddove siano in ballo l’interesse comune (ad esempio la lotta alla pandemia e ai suoi effetti) e il buon funzionamento delle istituzioni (ad esempio la scelta del nuovo inquilino del Quirinale). Un secondo mandato a Mattarella significherebbe, dal suo punto di vista, che tutte queste richieste e indicazioni non hanno trovato alcuna risposta.

 
Certo, dopo questa sua dichiarazione di indisponibilità (in realtà già anticipata in almeno tre discorsi recenti) il quadro politico-istituzionale si complica.

Mandare Draghi al Quirinale nel febbraio 2022, nel ruolo di arbitro della politica italiana e di garante di quest’ultima sulla scena internazionale, equivarrebbe infatti ad interromperne bruscamente l’attività di governo, con effetti potenzialmente negativi sul piano di riforme da avviare nei prossimi mesi.

 
Tenerlo a Palazzo Chigi sino alla fine naturale della legislatura (marzo 2023), significherebbe sì dargli il tempo di impostare e cominciare a realizzare le suddette riforme, ma significherebbe anche che col nuovo Parlamento eletto egli non potrà più avere un ruolo attivo nella politica nazionale: salvo immaginare – ma ci vuole davvero parecchia fantasia – che si faccia un partito tutto suo o che diventi il candidato per la guida del governo di uno di quelli esistenti (o di una coalizione). 


La prima è la strada preferita dal centrodestra, che sente il vento in poppa e spera, con l’elezione di Draghi al Colle, di andare ad elezioni anticipate vista l’impossibilità di far nascere in questa legislatura un quarto governo. La seconda è la strada preferita dal centrosinistra, dal momento che Pd e M5S avrebbero così più tempo per provare a saldare la loro alleanza e per recuperare consensi.
Come se ne esce? Ad esempio evitando di trasformare la corsa al Colle in una lotta mortale tra destra e sinistra: mai come questa volta sarà necessaria una scelta consensuale e largamente condivisa tra le diverse forze presenti in Parlamento (Mattarella s’è rivelato per nostra fortuna un ottimo Presidente ma ricordiamo che la sua elezione fu il frutto di una forzatura del centrosinistra renziano che si rimangiò all’ultimo momento l’accordo parlamentare stipulato con Berlusconi).


Al tempo spesso, bisognerebbe pensare quanto prima ad una legge elettorale in grado di restituire stabilità e funzionalità ad un sistema politico sempre più a rischio di frammentazione-implosione (se proprio si vuole il proporzionale che almeno ci siano soglie di sbarramento significative). 
Infine, la possibilità offerta a Draghi di chiudere la legislatura senza traumi parlamentari e con la piena collaborazione di tutti i partiti che formalmente lo sostengono, non andrebbe considerata un regalo fatto ad una parte politica contro l’altra, ma la precondizione perché nella prossima legislatura, quale che sia il governo che scaturirà dal voto popolare, esso non si trovi ad operare in un campo di rovine economiche e sociali.


Chiunque ambisca a governare l’Italia dopo Draghi (come ad esempio ha dichiarato nei giorni scorsi Giorgia Meloni, del tutto legittimamente stando ai sondaggi di cui gode) deve insomma sperare che l’agenda di riforme e il piano di investimenti messi a punto dal suo esecutivo possa realmente incardinarsi secondo i tempi imposti non tanto dall’Europa quanto dalle condizioni di oggettiva arretratezza e difficoltà in cui versa l’Italia. Se Draghi riesce nei suoi obiettivi non sarà solo un bene per gli italiani, ma anche per i partiti che già scalpitano per riprendersi ruoli, competenze e poteri che momentaneamente sono stati loro sottratti. Diversamente, una volta uscito Draghi di scena, dovremo cominciare a cercare l’ennesimo commissario straordinario della politica nazionale.

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