Alessandro Campi
Alessandro Campi

Questioni aperte/ Genova, il G8 e gli effetti non previsti sulla politica

di Alessandro Campi
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Martedì 20 Luglio 2021, 00:01

Molta della forza egemonica della sinistra dipende ancora oggi dalla sua capacità ad alimentare – talvolta anche contro l’evidenza storica e il buon senso critico – i miti politici che essa stessa crea a partire dalle sue (per definizione) buone cause, sino a farli diventare mode o luoghi comuni culturali che a metterli in discussione si rischia di apparire dei fastidiosi (e, va da sé, prezzolati) provocatori.

Esemplari in tale prospettiva sono gli imbarazzati e imbarazzanti silenzi di questa medesima sinistra – al netto delle inevitabili ma irrilevanti eccezioni personali – sulle manifestazioni popolari di protesta che stanno scuotendo Cuba, uno degli ultimi regimi comunisti al mondo: più che il soffio della libertà sono i morsi della fame ad aver innescato le proteste contro un sistema politico-economico che i suoi storici simpatizzanti faticano a definire una dittatura pauperista, corrotta sino al midollo, solo perché ancora ideologicamente prigionieri delle loro fantasie giovanili (la lotta dei popoli contro l’imperialismo americano incarnata dalla figura eroica di Che Guevara).


Altrettanto significative di questa irresistibile tendenza egemonica – grazie alla quale la sinistra riesce a nascondere con noncuranza i propri errori politici o, meglio ancora, a trasformare in epopea gloriosa persino le sconfitte e le pagine controverse della propria storia – appaiono le rievocazioni di questi giorni, a vent’anni di distanza, dei cosiddetti “fatti di Genova”. Quelli che nel luglio 2001, in occasione del G8, comportarono la devastazione della città ad opera dei black bloc, causarono la tragica morte di Carlo Giuliani (ucciso da un giovane carabiniere di leva durante l’assalto contro un mezzo militare condotto dal primo insieme ad altri contestatori) e si conclusero con la brutale repressione contro decine di manifestanti operate da alcuni esponenti (poi condannati nei processi) delle forze di polizia.


Furono sicuramente giornate drammatiche, cariche di pathos politico e di aspettative rimaste largamente frustrate, segnate da scontri e atti di violenza peraltro ampiamente annunciati e apertamente fomentati dai settori più estremisti, malamente gestite dalle autorità sul piano organizzativo e dell’ordine pubblico. Ma ha senso parlarne oggi come se si fosse trattato della Comune di Parigi, vale a dire della tragica interruzione, causata dalla repressione militaresca dello Stato, di una grande mobilitazione popolare che perseguiva eguaglianza e giustizia sociale?
Davvero un’intera generazione di attivisti è stata privata del proprio futuro da quell’episodio dopo il quale il mondo, come qualcuno si è spinto a dire, non è stato più lo stesso, essendo divenuto chiaro quale abisso incolmabile esista tra il popolo che lotta pacificamente per i propri diritti e i capi di governo che pensano solo a perpetuare il loro potere anche a costo di soprusi e inganni? La rivolta no-global di Genova è stato davvero un tornante della storia contemporanea di cui si leggerà nei libri anche fra mezzo secolo o siamo nel pieno di un tormentone retorico-celebrativo? 


In questi giorni, proprio in ricordo di quegli eventi, sono state pubblicate inchieste, si sono trasmessi documentari, sono stati organizzati convegni e tavole rotonde, sono apparsi volumi e raccolte di documenti, sono andate in scena opere teatrali, tutti finalizzati a presentare le proteste di piazza contro il G8 come un bel sogno bruscamente interrotto, come il paradigma, ancora oggi valido, di un grande progetto politico teso a costruire quel mondo nuovo e migliore che tutti ancora desideriamo. Ma è davvero così o quella vicenda, in realtà uno scoppio tardivo di febbre politica rivoluzionaria all’inizio di un Millennio nel quale le vere rivoluzioni le ha prodotte la tecnologia (non certo la politica), conteneva in sé contraddizioni, ambiguità e aspetti anacronistici che ci si ostina a non vedere? 
Non parliamo poi delle interviste ai protagonisti di quelle giornate di mobilitazioni e scontri, che hanno inevitabilmente alimentato quel tratto tipico (e assai fastidioso) della psicologia e dell’estetica pseudo-rivoluzionarie rappresentato dal reducismo: quell’«io c’ero», individuale e collettivo, alimentato da una memoria per definizione soggettiva, selettiva, acritica, giustificatoria e alla fine, quando si smette di essere giovani, anche un tantino patetica.

Ci sono ottantenni che ancora oggi si commuovono ricordando «quella volta a Valle Giulia…», nemmeno fosse stata la battaglia del Col di Lana all’epoca della Grande Guerra.


Come accennato, quest’enfasi celebrativa ha un senso dal punto di vista della sinistra politico-culturale, anche se quest’ultima ha ormai scelto in maggioranza il doppiopetto e il rispetto dell’ordine costituito. Serve tuttavia ad alimentare un album di famiglia rimasto nel segno di una morale manichea che al tempo stesso motiva e consola: i buoni lottano contro i cattivi, dacché esiste la storia, e purtroppo non sempre riescono a vincere. Anche a Genova in fondo è andata così: la legittima rabbia degli ultimi si è scontrata con la protervia dei potenti e dei loro sgherri in divisa. 
Ma la passione rievocativa per quelle giornate cui stiamo assistendo si spiega anche nella logica di una cultura pubblico-giornalistica che vive ormai di ricorrenze e anniversari e che tende ad offrire della realtà, si tratti di cronaca o di storia, una rappresentazione spettacolare e drammatizzante. La protesta di Genova, a ben vedere, fu un vero evento mediatico globale: una sommossa a beneficio di telecamera e di obiettivo fotografico, documentata in tutti i suoi tragici passaggi. E soprattutto per questa ragione si è impressa nell’immaginario sia di chi non ne ha condiviso le motivazioni ideali sia, a maggior ragione, di chi l’ha vissuta come un’insorgenza di massa contro il dominio oligarchico dei politici riuniti in città per il G8. 


Nessuno immaginò allora che nel giro di pochissimi anni i signori del mondo, i veri alfieri del capitalismo globale, arbitri ormai anche del gioco politico democratico e custodi delle nostre stesse vite private, sarebbero divenuti Amazon, Facebook, Google e Netflix. Quella rivolta contro la politica e i suoi legittimi rappresentanti aveva semplicemente sbagliato analisi e bersaglio. Perché non ammetterlo trascorsi vent’anni?
Così come bisognerebbe interrogarsi, soprattutto a sinistra, su certi effetti involontariamente perversi di quell’esplosione di rabbia no-global e anti-sistema. Se si guarda ad esempio agli effetti che essa ha prodotto sulla scena italiana, viene facile pensare che lo spirito anti-istituzionale e la voglia di sfasciare tutto dominanti in quei giorni siano stati uno degli alimenti psicologici sotterranei del grillismo, con le parolacce al posto delle barricate e dei caschi calati sul volto. Quanto alla denuncia di una globalizzazione brutalmente e semplicisticamente intesa come sfruttamento degli individui a beneficio dei poteri forti e come omologazione (cioè annientamento) di culture storiche e identità collettive, come non pensare che essa sia stata invece l’alimento ideologico del vituperato sovranismo o nazional-populismo? Nato politicamente a sinistra, l’anti-globalismo – quando lo spirito collettivo di rivolta dalle piazze si è spostato nelle cabine elettorali – ha beneficiato elettoralmente la destra estrema. Davvero un bello scherzo della storia, che tra una celebrazione e l’altra, tra un «c’ero anch’io» e un «quella volta a Genova», forse qualche dubbio o ripensamento critico su quegli eventi avrebbe dovuto suggerirlo. Ma si è sempre in tempo. Chissà, magari in occasione del trentennale.

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