Mario Ajello
Mario Ajello

Tipi italiani/ Il 25 aprile dei partigiani che non parteggiano

di Mario Ajello
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Mercoledì 20 Aprile 2022, 00:33

Nikolaj Gogol, che era ucraino, nel racconto intitolato «Roma» (1842) esalta le voci cristalline dei nostri cantanti che consentono ai popoli di distrarsi dalle incombenze quotidiane e di rilassarsi rispetto alle «occupazioni che induriscono l’animo». Il 25 aprile, al tempo della guerra in Ucraina, è un po’ così: si cantano gli inni alla pace, facili da intonare e noi siamo i più bravi a intonarli, come rito e come cerimonia, come una maniera per essere in piazza per sentirsi assolti (chi può essere contro la pace?) ed evitare di essere coinvolti, come una forma di distrazione pubblica rispetto alla realtà di un conflitto che procede a prescindere dalle bandiere arcobaleno e dalle esibizioni scenografiche da corteo. Mai come questa volta, il 25 aprile riassume alcuni dei caratteri, o dei vizi, nazionali. 

Non è più soltanto la festa della sinistra che si auto-rappresenta, che usa propagandisticamente l’anniversario della Liberazione, che vuole manifestare pur di esserci e per essere qualcosa e qualcuno (esiste la categoria del qualcunismo oltre a quella del qualunquismo), ma è anche più in generale lo specchio dell’atteggiamento di una parte dell’Italia verso la guerra. Che è fatto di filo-putinismo malamente mascherato (come nel caso dell’Anpi e del suo leader Pagliarulo, attor comico e tragico, figura auto-referenziale eppure idiomatica); di cattolicesimo o di catto-comunismo arcobaleno per cui la guerra non dovrebbe esistere nel mondo (e invece esiste eccome); di né-né (né con la Russia né con la Nato); di voglia di starsene tranquilli mentre l’Europa brucia; di neutralismo che è fuga dalle responsabilità (sacrifici energetici? non sia mai!). E insomma il 25 aprile, al di là delle beghe e delle manovre della sinistra e al netto della disfida delle bandiere (quella della Ue va bene oppure no? Guai a sventolare quella dell’Alleanza Atlantica ma sì al fazzoletto palestinese, no al vessillo di Israele e giammai a quello degli Stati Uniti, ammessa senza entusiasmo quella dell’Ucraina) è specchio di una certa vecchia Italia che marcia e che canta pur di non vedere, di non schierarsi, di non essere. 

C’è una sorta di indifferenza spacciata per impegno. Eccolo, tra 5 giorni ma già è qui, il 25 aprile. Ovvero gridare che la Resistenza era solo quella dei comunisti italiani (e tutti gli altri sono niente: compresi gli ucraini che combattono e soccombono) e poi, dopo aver onorato il rito ideologico, tornare alla vita di sempre, dell’io speriamo che me la cavo, della speranza che le tragedie della storia (e il conflitto in corso è una di queste) non tocchino l’orticello italiano, specie quello della propria appartenenza politica, e preghiamo che ciò avvenga perché la guerra è brutta sempre ma brutta ancora di più nel caso dovesse non riguardare solo gli altri ma condizionare anche noi.

Per esempio obbligandoci a risparmiare sulla caldaia e sull’aria fredda. 

Il carattere nazionale sintetizzato nella piazza della Liberazione, così come la si sta preparando, è quello del non stare da una parte o dall’altra, ma di preferire l’attendismo. In questo siamo storicamente coerenti. C’era la cosiddetta e ultra-maggioritaria «zona grigia» nel 1943-45, né con i fascisti né con gli anti-fascisti, e ora si riproduce per paradosso, ma riguardandoci più da lontano, quella situazione. Il paradosso è che l’Anpi - che dovrebbe rappresentare la memoria dei partigiani anche se i partigiani sono quasi tutti non più in vita e l’organizzazione che s’è appropriata della loro storia è uno dei tanti movimenti della sinistra radicale anti-atlantista - adesso proprio nella vituperata «zona grigia» del non parteggiare per nessuno s’è collocata. Il che, se riguardasse solo questa sorta di partitino, non avrebbe grande peso. Ma c’è una larga parte dell’opinione pubblica, nelle università, nelle conversazioni familiari, sui social, nelle arene televisive, nei luoghi dei luoghi comuni, che di fronte a un popolo che resiste strenuamente all’invasore nega agli ucraini la patente di partigiani e sono quelli che cantavano Bella Ciao senza battere ciglio perfino contro l’«editto bulgaro» di Berlusconi o contro il referendum costituzionale di Renzi. 
Oltre la destra e oltre la sinistra, intorno a questo strano 25 aprile e anche prima e anche poi, si avverte una sorta di pensiero unico imperante che è quello del desiderio che tutto si risolva da sé con il minor danno per ognuno. Una sorta di misticismo della pace che fa a pugni con il concretismo della realtà e con le tante poste geopolitiche in gioco. La festa dei partigiani (pseudo-partigiani considerando l’anagrafe dei protagonisti) che non parteggiano o fingono di non parteggiare fa parte del grottesco italiano che purtroppo è un gran pezzo d’Italia. Quella che sta alla finestra, mentre la storia si muove, in attesa di ritornare a una normalità che si presume, in maniera cieca o superficiale, possa essere quella di prima. Ma così non sarà.

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