Giuseppe Vegas
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La sfida europea/ Le regole più adatte per una vera ripartenza

di ​Giuseppe Vegas
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Domenica 3 Marzo 2024, 00:00 - Ultimo aggiornamento: 4 Marzo, 20:01

Singolare coincidenza. Nella stessa settimana in cui Apple ha deciso di rinunciare al progetto di una vettura elettrica, Xiaomi ha annunciato di voler entrare in quel mercato. Quasi contemporaneamente, a fronte del paventato ridimensionamento delle fabbriche italiane di Stellantis, sono state aperte trattative per produrre in Italia automobili cinesi. La Cina dunque si sta dimostrando oggi all’avanguardia nella tecnologia e in grado di imporsi in Europa e in America e non perde occasioni. Chapeau!


Se questa è la realtà, fino ad oggi è mancata una risposta europea efficace. Forse anche perché non sono state risolte alcune palesi contraddizioni tra obiettivi e regole. Gli obiettivi sono stati enunciati con chiarezza dalla presidente uscente della Commissione, Ursula von der Leyen: difesa, allargamento e transizione ecologica. Le regole, che rappresentano i meccanismi istituzionali attraverso i quali realizzare i propositi sopra indicati, sono il principio dell’unanimità nelle decisioni, il Patto di stabilità e la politica dei tassi applicata dalla Banca Centrale Europea. Quanto agli obiettivi, la crisi internazionale, con due guerre ai nostri confini e un crescente gioco di provocazioni, induce ad assumere con decisione le necessarie misure difensive. Naturalmente passare ad un meccanismo di deterrenza unificato sarebbe la scelta più efficace ed economica, ma non tutti sono d’accordo. Anche perché non è chiaro se la spesa verrebbe ripartita tra i singoli Stati o sarebbe a carico del bilancio dell’Unione e, se sì, come si potrebbe incrementarlo rispetto alla sua attuale irrisoria portata finanziaria. L’allargamento ad alcuni paesi dell’Est, primo fra tutti l’Ucraina, comporterà conseguenze non banali, a danno degli attuali percettori delle provvidenze per l’agricoltura e la coesione.


Ma l’obiettivo oggi più impegnativo è quello della transizione ecologica. Come ci ha ricordato recentemente Mario Draghi, la nuova politica ambientale costerà cara: circa 500 miliardi l’anno. E non potranno bastare le sole risorse pubbliche, sarà indispensabile anche un massiccio intervento di investimenti privati. Tuttavia, il denaro non cade dal cielo, ma deriva dalla profittevole attività degli investimenti e dal successo delle imprese. Quindi, se vogliamo che i privati partecipino allo sforzo della riconversione, le imprese dovranno guadagnare, e bene. Il che significa che non potranno destinare gli utili, o gran parte di essi, alla riconversione dei processi produttivi o alla sostituzione dei prodotti attuali. Se è così, allora meglio si possono comprendere i motivi delle crescenti reazioni alla trasformazione. A partire da quelle degli agricoltori, per passare alle case automobilistiche, che vorrebbero una maggiore libertà nell’adozione di sistemi di trasporto non inquinanti, senza essere obbligate al solo elettrico.


Il più rumoroso campanello di allarme è risuonato la scorsa settimana a Bruxelles, quando Germania, Italia ed altri dieci Paesi hanno bloccato la direttiva sul dovere di diligenza delle imprese europee.

La nuova regolamentazione sarebbe finalizzata ad imporre alle imprese il rispetto dei diritti umani, sociali ed ambientali tutelati dalle convenzioni internazionali, a partire da quelle sul clima. Ma non solo, esse dovranno farsi carico di garantire che anche le aziende coinvolte nella loro catena di valore si adeguino ai medesimi obiettivi. Lo scopo è ovviamente condivisibile, ma la probabile conseguenza sarà, oltre all’aumento dei costi di produzione e alla compressione della redditività, quella di restringere il numero dei fornitori e, probabilmente in qualche caso, rendere impossibile la continuazione dell’attività dell’impresa. Ne potrebbe facilmente conseguire un forte impoverimento del tessuto industriale, che non sarebbe più in grado di partecipare al finanziamento della spesa per la riconversione ambientale. L’obiettivo perseguito conterrebbe dunque in sé una sorta di meccanismo applicativo molto simile ad un sistema di autodistruzione.


Ma la più rilevante questione in materia di regole è quella del principio delle decisioni all’unanimità. È una procedura che andava bene fino a quando l’Europa era limitata al solo nucleo dei sei Paesi fondatori, ma che non funziona più in una comunità di ventisette Stati, con ventiquattro lingue diverse, e dove manca l’originaria omogeneità culturale ed economica. Si tratta di un sistema che rischia di portare all’immobilismo. Oggi, invece, occorre decidere rapidamente e farlo operando un salto di qualità rispetto al passato. Il fronte degli impegni europei si è andato molto ampliando e la situazione geopolitica richiede l’assunzione di scelte importanti. In mancanza di un rafforzamento delle istituzioni comunitarie si rischia la crescente irrilevanza degli interessi dell’Unione e la sua graduale scomparsa dallo scenario mondiale. Il patto di stabilità, poi, se è stato essenziale nella fase della costruzione della moneta comune, oggi, in un momento storico in cui l’indebitamento degli Stati rappresenta una caratteristica ineliminabile nel breve periodo, si è trasformato in una camicia di Nesso. Probabilmente potrebbe essere definito in maniera più elastica, anche al fine di tenere in maggior conto l’obiettivo della crescita. Non a caso, il patto è ormai scaduto e non si riesce ancora a definirne una nuova versione soddisfacente. Infine, giustamente la Bce persegue una politica di controllo dell’inflazione, e quindi mantiene elevati i tassi di interesse, ma contemporaneamente non dovrebbe essere insensibile all’imperativo categorico di far tornare l’Europa ad essere competitiva. Occorrerà pure, prima o poi, rendere meno difficile la vita agli Stati e alle imprese.

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