Alessandro Campi
Alessandro Campi

Serve una “squadra”/Quell’assenza ingiustificata di candidati al Campidoglio

Serve una “squadra”/Quell’assenza ingiustificata di candidati al Campidoglio
di Alessandro Campi
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Sabato 3 Ottobre 2020, 00:19
Qualcosa va dunque muovendosi, con riferimento al “caso Roma”. La discussione sui possibili candidati al Campidoglio (per le amministrative che si terranno nella primavera del 2021) comincia a farsi accesa. Dovranno essere – dicono tutti – autorevoli e capaci. Il che è però un modo per dire tutto senza dire niente, se poi al profilo ottimale non corrisponde un nome reale. 

L’altro giorno – come riportato da Il Messaggero – il segretario del Pd Nicola Zingaretti ha lanciato una sorta di appello. Appassionato ma anche un po’ disperato. Ha invitato i maggiorenti del suo partito a prendersi le loro responsabilità e a farsi avanti, spiegando loro quanto la guida di Roma rappresenti, al tempo stesso, un grande onere e un grandissimo onore, nonché un ruolo di enorme peso politico.

Ha anche rivolto una chiamata, nel caso dal Pd non arrivi alcuna risposta positiva, agli esponenti di punta della società civile romana: possibile che nessun imprenditore o professionista o manager o uomo di cultura, purché di chiara fama e riconosciuto valore, ambisca alla poltrona di Primo cittadino della Capitale d’Italia? Nel caso, il Pd l’appoggerebbe volentieri.

Infine, quella che ha tutta l’aria, nelle parole di Zingaretti, di una minaccia o di una resa politica. Se nessun nome di peso, politico o civico, si farà avanti il Pd sarà costretto, per così dire, a organizzare le primarie.


Laddove ormai è chiaro che questo strumento, nato per selezionare dal basso le classi dirigenti locali e per favorire la partecipazione dei cittadini alla vita dei partiti, non risponde più a questi obiettivi. Se da un lato è facile organizzare le truppe sul territorio per pilotarne l’esito, dall’altro si rischia una selezione del personale politico al ribasso. Senza contare che la corsa tra troppi candidati non sempre è un segno di vitalità e pluralismo, ma di frammentazione e confusione.

Insomma, le primarie – se a questo si arriverà – non serviranno per scegliere il miglior candidato, come negli auspici, ma per contarsi all’interno del Pd romano e magari per regolare vecchi conti. Zingaretti lo sa bene e non a caso le ha indicate come un’estrema e non auspicabile opzione.

Dal che si deduce, visto che le stesse incertezze del Pd le sta vivendo anche il centrodestra, che siamo ancora in alto mare. La politica, che dovrebbe scegliere e decidere, assumendosene la responsabilità, si rimette alla disponibilità dei singoli di buona volontà, ai quali si limita a proporre voti e sostegno. E’ un metodo che francamente non porta da nessuna parte, anche se lo si spaccia come il massimo della democrazia, dell’apertura e della volontà d’ascolto.

D’altro canto, inutile nasconderselo, quella romana è una poltrona che oggettivamente scotta, rappresentando un’incombenza amministrativa oltremodo gravosa. C’è da recuperare un pregresso enorme di inefficienze e ritardi. E c’è da smantellare blocchi corporativi e reti d’interessi interessati unicamente al mantenimento dello status quo. Che è poi uno dei motivi per cui nessun big della politica nazionale pensa anche solo lontanamente a candidarsi: il troppo impegno nella gestione della città li distrarrebbe dalle questioni nazionali.

Senza contare il rischio di un pessimo risultato alle urne a causa del fuoco amico. Che è l’altra ragione per cui personalità come Giorgia Meloni e Carlo Calenda hanno declinato la corsa al Campidoglio. Ci sono infatti casi in cui, più che gli avversari, bisogna temere di più gli alleati e i compagni di strada. La leader di Fratelli d’Italia, proprio perché così in crescita anche sulla scena internazionale, sarebbe un bersaglio ghiotto per i leghisti ormai preoccupati dai suoi continui successi. Il leader di Azione avrebbe invece contro quella fetta del Pd che lo considera ormai più a destra di Renzi e l’intero universo grillino che semplicemente non lo ha mai sopportato. Chi ha visibilità e ambizioni di carriera non ci sta a farsi impallinare. Meglio lasciare spazio alle seconde e terze file in cerca di visibilità o che nulla hanno da perdere.

Ciò detto, anche l’idea che a Roma serva un “uomo (o una donna) forte” forse andrebbe, a questo punto, modulata meglio. Le capacità personali (in primis sul lato amministrativo-gestionale) e l’autorevolezza politica individuale potrebbero infatti non bastare, tanto numerosi sono i guai della Capitale e tanto grande è il lavoro da fare. Bisognerebbe parlare piuttosto di una squadra di governo, a sua volta capace e autorevole.
Il che significa un Primo Cittadino che abbia con sé assessori scelti per le loro qualità intrinseche, non secondo le indicazioni e gli equilibri interni dei partiti. Da questo punto di vista, per tornare a Zingaretti, appare utile il suo appello alle energie migliori presenti nella società civile romana ai diversi livelli (le eccellenze davvero non mancano). Non c’è solo da eleggere un Sindaco, ma da costruirgli intorno una équipe di governo all’altezza dei problemi che dovranno essere affrontati e risolti. 

Insomma, non serve un nome (il futuro Sindaco), ne servono molti (i futuri assessori), dal momento che rimettere in sesto Roma, dopo tanta incuria e tanto immobilismo, richiederà uno sforzo per definizione straordinario e collettivo, che i partiti dovrebbero provare a sostenere sapendo che un altro fallimento sarebbe letale non solo per la città e per la nazione, ma per la loro residua credibilità.

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