La sinistra è spiazzata. Sia pure a denti stretti, ha dovuto lodare l’intervento del governo sugli extra-profitti delle banche. E sul problema dei bassi salari, del lavoro povero, del salario minimo, non ha potuto non prendere atto della disponibilità di Giorgia Meloni ad aprire un confronto costruttivo.
Non è la prima volta che il Governo dà segni di apertura sul versante sociale: era già successo con la Legge di bilancio, zeppa di misure a favore dei ceti bassi, e più recentemente con il taglio del cuneo fiscale per i dipendenti con redditi medio-bassi.
Ma è la prima volta che l’opposizione non sa che cosa ribattere. Ai tempi della Legge di bilancio poteva prendersela con la cancellazione del reddito di cittadinanza, con i condoni più o meno mascherati, con le nuove regole sul contante.
In occasione del decreto del 1° maggio sul taglio del cuneo fiscale aveva provato a criticarlo perché temporaneo, e perché accompagnato da misure “precarizzanti”. Oggi non più. Oggi l’opposizione non ha frecce retoriche al proprio arco perché il governo di centrodestra, uno dopo l’altro, le sta soffiando i cavalli di battaglia: riduzione del cuneo fiscale, tassa sugli extra-profitti, lotta allo sfruttamento.
È dunque giunto il momento di chiedersi: come è potuto accadere? Perché l’opposizione non è riuscita a prendere le misure al governo di Giorgia Meloni?
Io credo che la risposta sia semplice da formulare, anche se non semplicissima da spiegare: i partiti di opposizione e il sistema mediatico che li sostiene hanno commesso, fin dalla campagna elettorale dell’anno scorso, un clamoroso e sistematico errore di classificazione nei confronti della coalizione di destra in generale, e del partito di Giorgia Maloni in particolare.
Anziché parlare di centrodestra, come avevano fatto dalla discesa in campo di Silvio Berlusconi in poi, hanno iniziato a parlare di destra-centro, di destra-destra, di estrema destra, quando non a evocare il fascismo. E il bello è che quasi nessuno degli innumerevoli politologi e sociologi della politica che scrivono sui grandi media ha fatto notare l’abbaglio.
Eppure doveva essere chiaro. Il partito di Giorgia Meloni, che si avviava a diventare di gran lunga il primo partito italiano, è il meno a destra dei tre principali partiti che costituiscono la coalizione di centrodestra, almeno finché accettiamo la classica definizione dell’asse destra-sinistra di Anthony Downs e della sua “Teoria economica della democrazia” (1957).
Secondo questo modo di vedere – che non è l’unico possibile ma è ancora quello più autorevole – il criterio fondamentale per collocare i partiti lungo l’asse destra-sinistra è la quantità di intervento pubblico desiderato: il minore possibile quanto più ci si muove verso destra, e il maggiore possibile quanto più ci si muove verso sinistra.
A un estremo la ricetta liberista meno tasse e meno spesa pubblica, all’altro estremo la ricetta assistenzialista più tasse e più spesa pubblica.
Ebbene, basta un minimo di conoscenza della storia di Fratelli d’Italia per rendersi conto che la flat tax non è mai stata una sua bandiera, e che le sue radici stanno semmai nella destra sociale, per la quale l’intervento dello Stato nell’economia a sostegno dei più deboli non è certo un tabù.
Sull’asse destra-sinistra quale lo caratterizza la teoria economica della democrazia, Fratelli d’Italia non sta più a destra di Lega e Forza Italia, ma più a sinistra.
Ora quell’errore presenta il conto. Non avendo capito che Fratelli d’Italia non è, come viene ingenuamente dipinto, un partito che aspira a tutelare i ricchi e punire i poveri, l’opposizione si trova a dover fare i conti con uno scenario imprevisto: l’irruzione della questione sociale, resa esplosiva dal caro-vita e dal caro-mutui, in un contesto in cui i partiti più importanti – Fratelli d’Italia, Pd, Cinque Stelle – sono tutti in qualche misura statalisti e interventisti, anche se ciascuno a modo suo.
È questo che ha spiazzato l’opposizione. È su questo che, presumibilmente, si giocherà la partita di autunno.
www.fondazionehume.it