Romano Prodi
​Romano Prodi

Nuovi equilibri/ Il dialogo necessario tra la Cina e l’Occidente

di ​Romano Prodi
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Sabato 9 Marzo 2024, 00:30

Ogni anno, all’inizio di marzo, il Primo Ministro cinese, di fronte ai tre mila delegati del Congresso Nazionale del Popolo, illustra lo stato di fatto dell’economia nazionale, presentando gli obiettivi per i successivi dodici mesi. In teoria nel discorso di Li Qiang non vi è nulla di sorprendente. Pur ammettendo che lo sviluppo dell’economia cinese non è ancora solido, ha sostanzialmente ripetuto gli obiettivi dello scorso anno: una crescita del 5%, un deficit del 3% e una spesa militare del 7,2%. Non siamo naturalmente all’altezza dei gloriosi tassi di sviluppo del passato ma, dato il livello di medio reddito raggiunto dalla Cina, si può pensare ad una situazione di sufficiente equilibrio. 


Gli elementi di squilibrio sono invece tanti e, sotto molti aspetti, preoccupanti. La crescita si fonda infatti ancora su uno sviluppo delle esportazioni pari al 20,7% del Prodotto Interno Lordo Cinese, il che, data l’enorme dimensione raggiunta dall’economia del paese, produce un surplus di 300 miliardi di dollari nei confronti dell’Europa e quasi altrettanti nei confronti degli Stati Uniti, nonostante i dazi imposti da Trump e confermati da Biden. Si tratta di un surplus ritenuto politicamente e socialmente insopportabile, che è all’origine dei crescenti malumori politici e delle diffuse tensioni sociali. Questo disequilibrio è frutto della difficoltà, e comunque della non decisione, di sostituire l’eccesso delle esportazioni con la necessaria crescita del consumo interno. Nonostante la crisi dell’edilizia residenziale e nonostante che l’impressionate processo di investimenti nelle infrastrutture volga sostanzialmente al termine, il tasso di investimento rimane estremamente elevato (intorno al 40% del Pil) mentre i consumi interni si presentano depressi, sia perché sono aumentati i tassi di interesse, ma soprattutto perché, sia pure con il possibile obiettivo di migliorare gli equilibri sociali, vengono tenuti compressi i salari del settore pubblico e varie forme di restrizione della domanda. Bisogna inoltre tenere presente che la scarsa presenza del welfare, induce a risparmiare e non a spendere. Non bisogna inoltre trascurare il fatto che l’alto livello di disoccupazione giovanile, elemento così nuovo nella vita cinese dell’ultima generazione, induce le famiglie a comportamenti di spesa estremamente prudenti. Di conseguenza i consumi, invece di riequilibrare con la loro crescita l’eccesso delle esportazioni, si mantengono deboli, mentre il tasso di risparmio rimane così elevato da avvicinarsi alla somma del risparmio americano ed europeo messi insieme. Il livello dei prezzi dei consumi interni è quindi continuamente calato ed è ancora in calo, con una conseguente lunga depressione dei mercati finanziari e delle quotazioni delle imprese, che hanno raggiunto livelli minimi rispetto al passato, anche se hanno registrato qualche recente segnale di ripresa.


Non è comunque facile interpretare le ragioni che portano a rallentare la necessaria conversione verso il mercato interno e che, di conseguenza, allarmano i mercati internazionali provocando turbamenti profondi e gravidi di conseguenze.

Basta pensare a quanto è avvenuto nel settore delle energie alternative, con la quasi totale eliminazione dei concorrenti internazionali nella produzione dei pannelli solari e quanto si sta profilando nell’ancora più importante mercato delle auto elettriche e delle batterie. La battaglia, in questo campo, si presenta di dimensioni ancora più ampie ed aggressive. È sufficiente pensare che, fra i colossi come la Byd e le imprese minori, vi sono in Cina oltre duecento produttori di automobili elettriche, con una potenziale capacità molto superiore a quella di tutto il resto del mondo messo insieme. Una capacità produttiva che, anche per le limitazioni del mercato interno, sta facendo ogni sforzo per conquistare i mercati internazionali. Se non si aprirà quindi un dialogo fra Stati Uniti, Europa e Cina ( come è assai improbabile dato l’attuale quadro politico) inizierà fatalmente una battaglia a colpi di dazi e restrizioni che non gioverà certo agli equilibri e alla crescita dell’economia mondiale. Il livello di queste barriere dipenderà naturalmente dalla capacità di lobby dei produttori europei su Bruxelles e dalla vittoria di Biden o di Trump a Washington. Tuttavia il quadro presente, con le differenze dei costi, le dimensioni dei sussidi pubblici e la diversità delle strutture produttive, fa pensare ad una inevitabile e feroce lotta di mercato, a cui si affiancheranno numerosi investimenti per la costruzione di impianti produttivi nei mercati esteri. Si tratterà di un’inversione rispetto al passato: non più investimenti europei, americani o giapponesi in Cina ma in direzione opposta, per attrarre i quali i paesi europei sono già in forte concorrenza fra di loro.


La strategia dell’export cinese ha cambiato direzione, accentuando la propria attenzione verso i mercati in via di sviluppo che, già negli ultimi mesi, importano beni cinesi in maggior quantità rispetto ai paesi maggiormente sviluppati. Si tratta di una conversione non sostitutiva, non facile, non breve e assai costosa per le diverse condizioni di mercato e per i diversi livelli dei prezzi ma, soprattutto, costituirà un altro passo in avanti verso l’ulteriore pericolosa divisione del mondo fra, come si suol dire, il West contro il Rest. Una divisione che non giova a nessuno. Sembra però che la Cina e l’Occidente facciano a gara per rendere più difficile una futura costruttiva convivenza nel nostro pianeta.
 

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