Romano Prodi
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La Cina e la Nato/ Cosa può cambiare se Biden batte Trump

La Cina e la Nato/ Cosa può cambiare se Biden batte Trump
di Romano Prodi
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Domenica 18 Ottobre 2020, 00:00 - Ultimo aggiornamento: 13:38

I contenuti della campagna elettorale americana sono finiti in secondo piano, travolti dal fragore delle urla e degli insulti dei due candidati. A poco più di quindici giorni dal voto, mi sembra perciò necessario riflettere, anche se brevemente, sulle diversità degli obiettivi e dei programmi di Trump e Biden. Chiunque vinca sarà infatti, almeno per l’intero suo mandato, l’uomo più potente del mondo. 

Per partire dal tema più di tutti importante, cioè il confronto fra Cina e Stati Uniti, le cose sostanzialmente non cambieranno. La tensione, o meglio l’avversità, nei confronti della Cina è infatti condivisa da Repubblicani e Democratici: oltre il 70% degli americani pensa che la Cina sia l’unico reale concorrente per il comando del mondo e che, come tale, debba essere trattata. Non vi sarà quindi molto di nuovo riguardo ai dazi e alle guerre commerciali, anche perché già Trump si è comportato in modo estremamente duro, ma altrettanto flessibile, per non urtare gli interessi delle multinazionali americane operanti in quel Paese. Altrettanta continuità, ma accompagnata da implacabile durezza, sarà esercitata nel campo dell’alta tecnologia, a partire dalla sfida senza quartiere con Huawei e con tutto ciò che, direttamente o indirettamente, può avere a che fare con la superiorità scientifica o militare. La lotta per la supremazia mondiale non avrà sosta: in caso di vittoria, Biden si comporterebbe semplicemente in modo più educato.

In molti altri scenari internazionali, la vittoria del candidato democratico segnerebbe invece mutamenti sostanziali, con un ritorno al multilateralismo della politica di Clinton e di Obama. È quindi prevedibile un rientro negli accordi di Parigi sul clima, un ritorno ad un atteggiamento di collaborazione con il Wto (Associazione Mondiale per il Commercio) e con la Who (Organizzazione Mondiale della Sanità), il che comporterebbe anche un atteggiamento più collaborativo nella condivisione di un possibile vaccino per la cura del Covid-19.

La difesa degli interessi americani nel resto dello scenario mondiale continuerebbe, ma in modo meno muscolare e con una maggiore ricerca di alleati. Seguendo una tradizione, che solo Trump aveva interrotto, si riaprirebbero le normali collaborazioni con l’Europa, non solo riducendo i dazi recentemente introdotti, ma riannodando i rapporti politici che si sono molto allentati negli ultimi anni. Nella storia personale di Biden non vi sono elementi per pensare che proseguirebbe la politica europea di Trump che ha trattato l’Europa come un concorrente ostile, accentuandone continuamente le divisioni. Penso perciò che l’eventuale presidenza democratica non procederebbe ad alcun accordo separato con la Gran Bretagna, col rischio di riaccendere le tragiche divisioni dell’Irlanda e, nemmeno, incoraggerebbe le politiche dedicate a indebolire la coesione europea, attaccando alternativamente l’uno o l’altro governo.
Per concludere, Biden non rinuncerebbe certo al primato americano, ma lo eserciterebbe in modo meno isolato e unilaterale. 

Più facile prevedere i mutamenti di politica interna che Biden metterebbe in atto in caso di vittoria, dato che su questi si è snodato un intenso dibattito tra i candidati democratici in lotta per la nomination.

Biden ha vinto la gara nel partito perché si è schierato più vicino al centro rispetto ai suoi competitori, convincendo gli elettori di avere più possibilità di attrarre il voto dei moderati. In caso di vittoria non potrebbe quindi che comportarsi da riformista moderato, anche se obbligato a tenere conto che un terzo del suo partito si era schierato a favore di interventi pubblici più drastici e radicali. 

Per fare uscire gli Stati Uniti dalla crisi della Pandemia, si spingerà più avanti di Obama e Clinton, portando avanti più ambientalismo, più politica industriale, maggiori investimenti nelle decrepite opere pubbliche, un incremento della spesa nell’istruzione e nella ricerca e una minore severità nelle politiche di immigrazione. Tutto ciò comporterà un sostanziale aumento della spesa pubblica anche se, probabilmente, non sarà proposta una riforma sanitaria così profonda come quella che aveva programmato Obama, suscitando impressionanti opposizioni.

Ad un impegno così pesante nella spesa pubblica, Biden farebbe fronte per metà con l’aumento di imposte sui redditi più elevati (ai quali si applicherebbe una tariffa massima del 40%), sui profitti delle imprese (che salirebbero dal 21 al 28%) e con la cancellazione delle esenzioni delle imposte sui guadagni da capitale (capital gains), concesse da Trump. All’altra metà si farebbe fronte con un aumento del deficit pubblico, oggi più facilmente accettato dai cittadini e dal mondo degli affari in conseguenza della Pandemia in corso.

La piattaforma di politica interna del candidato democratico si potrebbe quindi riassumere con un vecchio slogan della Democrazia Cristiana italiana che parlava di “progresso senza avventure” frutto del compromesso fra le diverse correnti del partito, ma abbastanza rassicurante per respingere le accuse di comunismo mosse ogni giorno da Trump.

Naturalmente, per mettere in atto questo programma, Biden non solo deve vincere le elezioni, ma deve ottenere una solida maggioranza sia al Senato che alla Camera. Fra una quindicina di giorni si saprà se questo disegno sarà realizzabile.

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