La fine dell’anno ha coinciso, un po’ per caso e un po’ per necessità, con la chiusura di diverse questioni aperte. La legge di bilancio è stata approvata nei tempi previsti e usuali, senza ricorrere al temuto “esercizio provvisorio” e totalmente in linea con quanto successo (almeno) negli ultimi venti anni. Il Parlamento si è espresso sulla modifica del cosiddetto Mes, il Meccanismo europeo di stabilità: forse non come molti, in Italia e in Europa, si aspettavano o speravano, ma almeno con chiarezza, a differenza di quanto accaduto nella legislatura precedente. Infine, la decisione più attesa: è stato raggiunto l’accordo sul nuovo Patto di stabilità e crescita, le regole fiscali che governeranno l’Unione monetaria europea nei prossimi anni.
Da un lato, questa normativa limita la libertà di azione degli Stati, in particolare per quanto riguarda la dimensione del deficit di bilancio e l’andamento del debito pubblico; dall’altro lato, tuttavia, essa stabilisce quelle condizioni necessarie affinché una federazione ancora imperfetta, basata solo sulla delega della politica monetaria ma non (ancora?) di quella fiscale, possa provare a funzionare. Oltre che necessarie, queste condizioni sono in fin dei conti anche molto utili, soprattutto per Paesi come il nostro. Tra gli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, cioè dopo la creazione della Comunità economica europea ma prima di quella dell’Unione monetaria, il legislatore italiano ha letteralmente spaccato i conti dello Stato: ci sono voluti solamente venti anni per triplicare il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo, dal 40% dei primi anni ‘70 al 120% dei primi anni ’90. E gli effetti nefasti di questo disastro si subiscono ancora oggi. Solo grazie all’ingresso dell’Unione monetaria (metà anni ’90), il Paese è tornato ad avere un controllo adeguato sui propri conti pubblici. La spesa per interessi è crollata: non perché siano diminuiti i prestiti ma perché è migliorata la nostra reputazione.
Il saldo primario, cioè la differenza tra entrate e uscite al netto della spesa per interessi, è rimasto positivo da allora, salvo ovvi peggioramenti negli anni di recessione (2009-2013 e post 2020).
Sono cambiati la qualità e la visione della classe politica rispetto al passato? Forse.
C’è il pericolo che accada ancora? Secondo quelli a cui piace tifare contro al nostro Paese (all’estero come in Italia), è probabile. Ma i conti si faranno alla fine. Il Paese ha tutto il tempo di adeguarsi alle nuove regole e di strutturare un sentiero di rientro di deficit e debito coerente con i nuovi accordi. Per qualcuno il nuovo Patto di stabilità rischia di essere recessivo, cioè di deprimere la crescita. Bisogna però ricordare che molti Paesi, Italia in testa, devono ancora sfruttare al meglio le potenzialità fornite dal Piano nazionale di ripresa e resilienza. Il che non significa deterministicamente un boom economico: gli investimenti, senza riforme strutturali adeguate (fisco, giustizia civile e amministrativa, burocrazia, giusto per citarne alcune), avranno un effetto limitato. Ma questo sta alla responsabilità e all’abilità degli attuali Governo e Parlamento. La legislatura è ancora lunga. E la sfida è appena iniziata.