Welfare, il Covid cambia i bisogni dei lavoratori: ecco la rete della nuova normalità

Getty Images
di Osvaldo De Paolini
4 Minuti di Lettura
Martedì 27 Aprile 2021, 08:17 - Ultimo aggiornamento: 15 Dicembre, 17:20

Domestico o digitale? Reticolare o comunitario? Il nuovo welfare integrato è in cerca di nuovi aggettivi che lo qualifichino. Ma certamente non potrà fare a meno di una dimensione di “rete”. Sia perché gli strumenti di integrazione saranno sempre più articolati, personalizzati sebbene inseriti in una ritrovata dimensione comunitaria (in azienda, in famiglia, sul territorio); sia perché sempre più spesso la fruizione dei servizi e delle prestazioni non potrà prescindere dalla dimensione digitale e quindi dalla rete (web o social) che contribuirà a distribuire benefit e sostegni. La metafora della “terra incognita” è stata utilizzata una decina d’anni fa da Giulio Tremonti alla vigilia della grande crisi del 2011, ma nel pieno degli stravolgimenti prodotti dal terremoto dei subprime e dei debiti sovrani. Oggi viene riproposta per annunciare una “nuova normalità” che nessuno sa descrivere. Il “new normal” è una nuova araba fenice. Che ci sia sono tutti concordi nel dirlo. Dove sia e che cosa sia, nessuno lo sa. Certamente la “nuova normalità” che si imporrà alla fine della pandemia (perché finirà prima o poi!) sarà fatta da molta digitalizzazione in più, e da una inattesa rimodulazione dei rapporti centro-periferia, casa-azienda, abitare-lavorare. Tutta materia del welfare. Ma con un accento rinnovato. Per anni abbiamo pensato al welfare come “welfare state”; poi abbiamo capito che avremmo dovuto immaginare un “welfare mix”, dove pubblico e privato (e privato sociale) avrebbero dovuto convergere per offrire una migliore protezione sociale agli individui (e ai lavoratori in particolare). Oggi – dopo la drammatica esperienza del Covid-19 – abbiamo capito che dobbiamo tenere in conto una flessibilità e una responsabilità diffusa che cambia le organizzazioni del lavoro (con il lavoro smart, più o meno intelligente, ma sempre più spesso “remoto”) e quindi i bisogni di chi lavora. C’è chi ha azzardato a definirlo un “welfare domestico” (o addirittura “domiciliare” per evocare ancora più esplicitamente la dimensione reclusiva di molti lavoratori). E qualcosa di vero c’è, se dopo tanti sforzi per trasformare i luoghi di lavoro in piccole oasi di benessere (con palestre, asili nido, aree lounge e relax, fino a dotarli con più banali ma frequentatissimi tavoli da ping pong) per i lavoratori, ci siamo ritrovati a lavorare tra la cucina e la camera da letto, schivando bambini resi isterici dalla cattività e coniugi riscoperti troppo quotidiani. Il welfare in azienda deve trasferirsi nelle case? Le mense aziendali sono state ridotte bruscamente: ci vuole un pasto-mensa a casa? Welfare domestico, ma anche digitale. Non solo le riunioni sono diventate una interminabile sequela di video-call (dove magari potrebbe bastare una vecchia telefonata), ma anche i supporti psicologici e i medici hanno cominciato a viaggiare in rete, con tele-consulti e tele-supporti. Covid-19, smart working, new normal, nuovo welfare: sono gli elementi di un difficile cubo di Rubik.

Per chi non lo ricordasse, negli anni Ottanta divenne un tormentone (era stato inventato dall’omonimo architetto ungherese a metà degli anni Settanta).

Un tormentone che divenne ossessione collettiva, tutti intenti ad allineare e ricomporre i colori delle sue facce. Oggi abbiamo di fronte la necessità di ricomporre un reticolo di strumenti di protezione sociale, che devono essere magari ricolorati con i nuovi bisogni che si manifestano nella nuova normalità del lavoro (tra casa e ufficio), e nella nuova dislocazione di centro e periferia (i grandi processi di urbanizzazione subiranno una battuta di arresto in favore di una delocalizzazione delle persone?). Le poche certezze coincidono con le nuove paure. La salute resta al primo posto delle preoccupazioni - non a caso l’azione del governo Draghi è stata fin da subito concentrata su questo problema - e quindi delle richieste di integrazione della protezione sociale. Ma le sfide riguardano la necessità di una incessante formazione, di una capacità contrattuale rinnovata e sempre meno ideologica, di una dimensione mutualistica e territoriale da riscoprire. La persona al centro? Sicuro, la persona al centro. E non è solo un mantra. Ma oggi si tratta di capire come, proprio quando il centro tradizionale (ufficio, città, headquarter aziendale) sembra svanire. Le banche, le compagnie di assicurazione, i provider, i broker, le cooperative sociali, gli enti locali, la pubblica amministrazione hanno una grande responsabilità perché la qualità della rete del welfare dipende da loro.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

© RIPRODUZIONE RISERVATA