Le banche serrano le fila e rilanciano il dialogo e la collaborazione con il governo sul fronte del decreto extra-profitti che vuole drenare i maggiori guadagni degli istituti nel 2023 rispetto al biennio scorso (45,5 miliardi) in termini di margini di interesse, frutto del gap fra i proventi incassati sui prestiti alle famiglie e la remunerazione sui depositi della clientela. È questo l’esito della riunione di ieri mattina, svoltasi in teleconferenza, del Comitato di presidenza Abi, presieduta da Antonio Patuelli di cui fanno parte, fra gli altri, Gian Maria Gros-Pietro, Piercarlo Padoan, Massimo Tononi, Nicola Maione, Giampiero Maioli, Elena Goitini e altri.
Nessuna dichiarazione ieri mattina, in assenza di un testo bollinato («spesso il silenzio è assordante»): la firma del capo dello Stato è arrivata solo più avanti nella giornata, e per analizzare il decreto ci vuole del tempo.
LA MANCATA CONCERTAZIONE
Due ore di scambi di vedute con mandato all’unanimità al presidente dell’Associazione per negoziare miglioramenti con la controparte. Il leader di Palazzo Altieri ha svolto la relazione introduttiva nella quale ha ripercorso le fasi della genesi del decreto, varato a sorpresa, lunedì sera dal Cdm. Sia Patuelli che altri banchieri intervenuti, hanno rimarcato lo stupore per aver appreso a freddo, senza preventive consultazioni, il varo di una aliquota che, secondo la formulazione originaria, avrebbe avuto un costo di 9 miliardi a carico degli istituti quotati. E 9 miliardi è stato il valore bruciato il giorno dopo (martedì 8) in borsa dall’ondata di vendite abbattutasi sulle banche, da parte di investitori delusi dall’imprevista diminuzione di attrattività di quei titoli.
Va detto che una prima revisione della stangata sostituendo lo scudo del 25% del patrimonio netto con lo 0,1% dell’attivo, maturato due giorni fa grazie anche alla moral suasion di Bankitalia e l’attivismo di un banchiere in quota Lega che è anche presidente di un grande istituto e membro del vertice Abi, hanno risollevato i titoli. E dopo il rimbalzo di mercoledì 9, anche ieri, nonostante Moody’s («l’aliquota è negativa per il settore»), il Ftse Mib ha chiuso in positivo (+ 0,94%) trainato dai titoli del credito: Bpm + 2,94%, Intesa Sanpaolo + 1,94%, Unicredit + 0,63%.
Dopo Patuelli, hanno preso la parola Camillo Venesio, Gros-Pietro, Padoan, Maioli, Guido Rosa tutti per puntellare l’impostazione negoziale. Qualcuno ha segnalato che una maggiore concertazione fra governo e banche avrebbe evitato il bagno di sangue in borsa, a scapito dei risparmiatori quindi famiglie che il governo dice di voler preservare. Nella versione finale del testo l’ultima declinazione dell’aliquota del 40%, avendo come tetto massimo lo 0,1% dell’attivo, appare più o meno accettabile, specie da parte di qualche istituto particolare che nella versione originaria, se la sarebbe passata male. Ma c’è spazio per ulteriori miglioramenti da spuntare a fronte della disponibilità confermata dai banchieri di fare la loro parte, come dimostrato con il patto sui mutui variabili, gli interventi agevolati sulle zone alluvionate ma anche il possibile innalzamento del costo della raccolta di qualche punto.
DUBBI SUI TITOLI DI STATO
Ora l’attenzione è riposta su un primo chiarimento: il margine prodotto dai titoli di stato (voce 30 del conto economico), viene ricompreso nella tassazione? Poi c’è la richiesta di prevedere la deducibilità del prelievo una tantum: «Sarebbe una boccata d’ossigeno perché consentirebbe di ridurre l’onere dal 40 al 27%», confida un grande banchiere. L’Abi ha messo al lavoro l’ufficio fiscale interno per fare calcoli sofisticati: in sostanza l’aliquota dell’imposta straordinaria, in caso di deducibilità, verrebbe limata di poco più del 13%, un calcolo elaborato che tiene conto delle aliquote Ires e Irap. Prematuro stimare il risparmio anche se alla fine, il costo potrebbe attestarsi attorno a 800 milioni.