Va in pensione il Procuratore generale Pietro Mennini: le cento battaglie per la legge

Il Procuratore generale Pietro Mennini e, a destra l'Avvocato generale Alberto Sgambati
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Martedì 26 Maggio 2020, 14:47 - Ultimo aggiornamento: 15:07

PESCARA - Quando l’uomo reso folle da un tumore al cervello, dopo aver ucciso a freddo i due figli di pochi anni, tentò di accoltellare anche la moglie, il giovane sostituto procuratore di Teramo al quale, in manette, rese l’agghiacciante confessione di famoso aveva soltanto il cognome: Pietro Mennini, famiglia romana in vista, padre banchiere del Vaticano; il fratello monsignor Antonello diplomatico della Santa sede attualmente responsabile dei rapporti con l’Italia, ma soprattutto vice parroco ai tempi del caso Moro, quando fece da tramite per le comunicazioni epistolari tra il leader della Dc prigioniero delle Brigate rosse e la famiglia; l’altro fratello Paolo amministratore del patrimonio della Sede apostolica.

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Era un caldo inizio estate di 37 anni fa e, dal ruolo di Pm di Teramo, il giudice Mennini ha scalato tutti i gradini della pubblica accusa nelle Procure abruzzesi, fino al gradino più alto, Procuratore generale presso la Corte d’appello, incarico assunto il 7 aprile del 2016 che lascerà giovedì prossimo, al compimento dei 70 anni, per andare in pensione. È però Pescara la città dove il dottor Mennini ha trascorso gli anni più significativi della sua vita di magistrato in prima linea: sostituto di lungo corso con i procuratori Michele Ramundo ed Enrico Di Nicola, poi dal 2 giugno del 2000 procuratore aggiunto, prima di salire a Chieti da procuratore capo.

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Un magistrato rigoroso e preparato, schivo quel tanto che il ruolo richiede, mai scostante con imputati, avvocati, giornalisti e investigatori, il variegato mondo che ruota intorno agli uffici giudiziari. Sempre sostenuto da una verve romana utile per sciogliere anche nelle situazioni più estreme le tensioni delle centinaia di battaglie combattute sul fronte della legalità. Con una sensibilità particolare per il delicato cosmo dei rapporti familiari che lo ha portato prediligere il ruolo del Pubblico ministero nelle controversie civili in materia di matrimonio, filiazione e adozione.

Interviste rarissime; inesistenti i virgolettati al di fuori delle requisitorie. Un riserbo imposto dalla vecchia scuola («i magistrati parlano con gli atti») sapientemente combinato con la disponibilità ad agevolare, nel lecito, il compito dell’informazione. Da esponente, per ragioni anagrafiche, di una sorta di generazione di mezzo Pietro Mennini ha vissuto in prima persona l’evoluzione della Procura pescarese dal vecchio assetto di piccolo ufficio di provincia, un capo e tre sostituti con competenze generali, ad avamposto della legge in una città e in un territorio divenuti frontiera: un lungo arco di tempo in cui, insieme all’organico, è cresciuta anche l’organizzazione con la creazione di pool e gruppi di lavoro specialistici. 

Ma all’inizio erano notti insonni, gomito a gomito con la polizia giudiziaria, per risolvere omicidi (viale Bovio, Zanni, la ragazzina soffocata dal fidanzato boy scout), rapine e scorribande della nascente mala di riviera, mega truffe di colletti bianchi. Fino all’estate spartiacque, il 1992, Tangentopoli, le teste cadute di sindaco, assessori, deputati, amministratori sanitari e tutti i mammasantissima del superpartito.

Tutti fascicoli passati per le mani del Pm Pietro Mennini, in tandem con il procuratore Di Nicola, il primo ad imporre il ruolo strategico della procura pescarese come argine adriatico all’espansione della grande criminalità organizzata. Unica amarezza, il procedimento disciplinare del Csm per i veleni interni scaturiti dal caso Ciclone, conclusosi sembra ombre nel 2008 con l’assoluzione piena. Una parentesi chiusa, come la lunga e prestigiosa carriera in toga che volge al termine.





 

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