Jeffery Deaver, re del thriller: «Devo molto a Sergio Leone. Le armi? Io ne ho, ma sparo solo ai serpenti»

Esce "Tempo di caccia" il nuovo romanzo con protagonista il detective Colter Shaw

Jeffery Deaver, re del thriller: «Devo molto a Sergio Leone. Le armi? Io ne ho, ma sparo solo ai serpenti»
di Riccardo De Palo
5 Minuti di Lettura
Giovedì 12 Ottobre 2023, 10:11

«I miei libri sono come le montagne russe», dice il re del thriller americano, Jeffery Deaver, 73 anni, in questi giorni in Italia per presentare Tempo di caccia (Rizzoli), il suo nuovo romanzo dedicato al detective Colter Shaw. L’autore de Il collezionista di ossa (1997), diventato un film con Denzel Washington, costruisce in questa nuova avventura una vera corsa contro il tempo, per salvare una donna ingegnere e sua figlia dall’ex marito poliziotto e da un gruppo di sicari. E nessuno è veramente come sembra.

Come descriverebbe il suo protagonista? Sembra una persona molto razionale, ma al contempo empatica, è così?

«Sì esatto, e in realtà per lui devo ringraziare gli italiani. Perché il suo personaggio è ispirato ai film di Sergio Leone, all’Uomo Senza Nome reso celebre da Clint Eastwood. È lo straniero che arriva in città, ha grande sangue freddo e usa la sua capacità non per il suo guadagno personale, ma per aiutare chi è in difficoltà. È una persona a caccia di ricompense, per ritrovare persone scomparse».

Il suo romanzo inizia come un romanzo sulla violenza contro le donne e poi diventa un inno all’ambiente. Ce ne vuole parlare?

«I miei libri hanno un andamento molto veloce, dall’inizio alla fine. Ma, oltre al conflitto tra i cattivi e il nostro eroe, credo che un libro debba restare impresso nella mente. Qui volevo porre l’accento sulle responsabilità delle corporation in America, nei confronti delle piccole città».

Il romanzo infatti si svolge in una piccola città immaginaria, è così?

«Sì esatto, è chiamata Ferrington, che come suggerisce il nome è stata una vecchia città per la lavorazione del ferro. Poi le compagnie se ne sono andate, lasciando dietro di sé tanta disoccupazione e molte scorie chimiche. Io stesso sono nato in un piccolo sobborgo vicino a Chicago (Glen Ellyn, ndr). È un po’ l’ambiente che descrivo nel mio romanzo». 

Quanto è importante salvare l’ambiente?

«Bisogna rimediare ai danni che altri hanno lasciato. La sedia vuota era un mio romanzo di qualche anno fa, sui pericoli di pesticidi e insetticidi usati in passato. Quando ero più giovane la città era percorsa da autocarri che spargevano DDT contro le zanzare e noi ragazzi li seguivamo, senza sapere della nocività di quei composti chimici».

Lei ha creato molti personaggi seriali, come Lincoln Rhyme and Kathryn Dance. Quale tra questi ha amato di più?

«Io sono così fortunato, a vivere dei miei libri, e ho milioni di lettori nel mondo. Alcuni amano di più Lincoln Rhyme, che è una specie di Sherlock Holmes, ed altri amano Colter Shaw che è un eroe a tutto tondo. A me non fa differenza scrivere dell’uno o dell’altro».

Nei suoi romanzi non ci sono mai personaggi completamente buoni o del tutto cattivi: vuole copiare la realtà?

«Sì, è così.

Per me è molto importante creare un legame di empatia con i lettori. Più creiamo personaggi di finzione verosimili, e più i nostri libri possono essere coinvolgenti. I miei buoni generalmente prevalgono, ma hanno dei difetti, dei difetti morali. E allo stesso tempo, i villains, i cattivi, non sono mai puramente malvagi».

Molti atti criminali avvengono perché ci sono sin troppe armi in giro. C’è modo di limitare la quantità di fucili d’assalto in America?

«In una parola: no (ride). Io stesso possiedo armi, le ho usate solo per uccidere serpenti velenosi, servono per autodifesa. Ma purtroppo le sparatorie nelle scuole e i massacri sono ormai parte dell’America. Non credo che le cose cambieranno molto presto».

Lei è un maestro del thriller. Quali sono le sue regole, quando scrive?

«È molto semplice da dirsi, ma molto difficile in pratica. Creare personaggi molto realistici, e metterli davanti a ostacoli sempre crescenti. Fino a una sorpresa finale che risolva la storia in una maniera soddisfacente per i lettori. Non necessariamente un lieto fine».

È in arrivo una nuova serie tratta da un suo libro, The Never Game, vero?

«Sì, ma hanno cambiato il titolo: si chiamerà Tracker, che sta per qualcuno a caccia di tracce. Sto lavorando anche con Amazon Studios a un progetto, ma ora a Hollywood tutto è sospeso, a causa dello sciopero degli attori. Per ora mi devo concentrare sui miei libri».

Quali sono gli autori che l’hanno ispirata di più?

«Sono talmente tanti. Tra i più grandi, Agatha Christie, Conan Doyle, Ian Fleming, Georges Simenon. Ma tra gli italiani, ho letto anche Camilleri. E ho visto la serie tv dedicata al commissario Montalbano».

Cosa pensa dell’Italia?

«Vengo qui ogni anno. È una fonte della nostra cultura, ho studiato latino, ho letto Virgilio in lingua originale. E poi naturalmente amo anche il cibo italiano, ho mangiato dell’ottimo pesto.. È un paese di lettori, la gente ama i libri».

Lo crede davvero?

«Qui vendo molti libri. Dopo l’America, è il secondo mercato per me. E anzi, proporzionalmente alla popolazione, ne vendo di più qui».

Cosa ne pensa della nuova guerra in Israele?

«È una tragedia indicibile. Non ho l’autorità per parlare di politica, ma direi che sembra un trend globale: un nuovo ordine mondiale fatto di disordini, di violenza. Una sfida continua contro lo status quo, come è avvenuto in Ucraina. E ciò che posso dire è che spero che le voci di pace prevalgano».

Com’è stato scrivere una storia di James Bond?

«Ho sempre amato le storie di 007 e dopo avere scritto Il giardino delle belve (nel 2004) mi sono reso conto che era stata una delle letture che più mi aveva influenzato. Quando, nel 2011, gli eredi mi hanno chiamato per chiedermi di scrivere una nuova avventura di James Bond, ho accettato con entusiasmo. Ma ho fatto qualcosa di diverso. Bond non era il supereroe che ritroviamo nei film ispirati ai libri di Fleming: ho cercato di andare all’origine del personaggio». 

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