Camilleri e "Riccardino", così una lingua (inventata) può costruire un mondo

Camilleri e "Riccardino", così una lingua (inventata) può costruire un mondo
di Riccardo De Palo
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Sabato 25 Luglio 2020, 13:41
Costruire una lingua vuol dire costruire un mondo, come ben sapevano J. R. R. Tolkien, Carlo Emilio Gadda, e gli esperti ingaggiati per il film Arrival o la serie Il trono di spade. Così è stato per Andrea Camilleri, che negli anni ha fatto evolvere il suo vigatese, che l’autore considerava una vera e propria lingua, e non solo un dialetto. L’ultimo episodio di Montalbano, Riccardino, è stato proposto da Sellerio in due edizioni: un libro che contiene la versione definitiva, rivista dall’autore nel 2016, e un’altra che contiene anche la prima, datata 2005. 

Colpisce che entrambi le edizioni formino in coppia il primo e il secondo posto della classifica dei libri più venduti in queste settimane: gli italiani, per amore del loro commissario preferito, sono diventati tutti filologi, e preferiscono pagare cinque euro in più per questa versione, particolare, commemorativa (e rilegata con elegante copertina rigida)? Di certo la risposta sta nel mezzo: c’è il desiderio di celebrare l’ultima storia di Montalbano con una veste insolita, ma anche di capire meglio il percorso creativo di Camilleri.

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L’autore di Riccardino ha sempre preferito il dialetto per esprimere certi dettagli, che in italiano gli sfuggivano. «L'italiano - spiegava - mi diventava generico, le sfumature mi mancavano. E allora ho usato una specie di shaker e, a poco a poco, ho cercato ambiziosamente di creare una terza lingua che fosse tutta mia e il risultato di questa commistione. Per noi siciliani l'italiano è rimasto un atto notarile».

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Chi vuole andare più a fondo, può provare (anche a caso) a comparare le due stesure. Il nome Camilleri (nelle parti in cui telefona al suo personaggio) scompare, e diventa l’Autore, molto più pirandelliano; ma è Salvatore Silvano Nigro, nella postfazione, a entrare maggiormente nel dettaglio: «Camilleri è intervenuto sui giri delle frasi, ha evidenziato i dettagli, ha reinventato nuovi ordini di parole, ha rimodulato l’interpunzione, ha badato all’armonia delle sillabe, agli eccitanti del linguaggio sonoro (come i prefissi nei verbi), ai fatti gestuali dell’espressione (nzè non è una semplice negazione; introduce tutto un movimentato spettacolo facciale). Ha rielaborato la prosa, la scrittura aguzza, le sfumature».

 

Alcune parole si evolvono (comodino diventa commodino, colla diventa coddra), le frasi si arricchiscono di suoni e di ritmo (e tu perché chiami me? si muta in e tu pirchì acchiami a mia?); il siciliano derivato da quello parlato a Porto Empedocle si evolve, si trasforma, come avviene alle lingue “vive”; e questo rende in qualche modo “reale” anche il mondo di Vigàta. Per questo trasformare frasi come rompirono il tubo in rumpiro il tubbo (e potremmo andare avanti all’infinito con esempi del genere) non sono aridi rifacimenti di un letterato alla ricerca della perfezione, ma sono tentativi di creare un ecosistema in cui i personaggi possano trovare definitiva collacazione, possano vivere in un romanzo in cui (come sempre nelle opere riuscite) “tutto si tiene”. Un mondo che si evolve da “lingua bastarda” a “lingua ‘nvintata”, come sottolinea lo stesso Nigro, per dare vita a «un sistema unitario siculoitaliano e fantastico».
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