«Dopo l'acciaio serve la fabbrica delle idee
Senza università la città non decolla»

«Dopo l'acciaio serve la fabbrica delle idee Senza università la città non decolla»
di Lucilla Piccioni e Vanna Ugolini
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Domenica 25 Agosto 2019, 09:50
Moderni per forza, non per vocazione. Anzi contemporanei, nel senso di condannati al presente senza una visione di lungo periodo. Così la città ha perso la strada - e le sue vocazioni più alte - quelle che erano nate negli anni cui la fabbrica produceva acciaio ma anche idee. Se viene a mancare una trama solida, che regge i pensieri e le idee, li indirizza e li contamina, si fa presto a scivolare via dalle prime file delle città di provincia sì, ma vive e vitali e sedersi negli ultimi posti a sonnecchiare. Quasi non ci se ne rende conto. E diventa quasi normale arrivare a essere una città senza teatro, nè eventi, nè crescita culturale. Il dibattito, che ha preso spunto sul Messaggero, dalle polemiche che da anni si sollevano intorno Verdi, continua e si allarga. L'analisi di una città che ha amministrato solo il contingente per cui si è trovata ad essere al passo con i tempi solo fino a quando ha tirato la fabbrica, è condivisa. La sposa in pieno Giorgio Armillei che è stato assessore alla cultura e prima ancora direttore della biblioteca comunalea. Moderna pure quella. «Quando negli anni Settanta comincia a venir meno la centralità della grande fabbrica, saltano le relazioni con il tessuto sociale, la siderurgia e la chimica attraversano una crisi profonda. E la città non si trova più, non trova una nuova identità», dice Armillei.
INVERTIRE LA ROTTA
Eppure dei tentativi di invertire la rotta ci sono stati, sono nati il Centro Multimediale, il Caos, centro arti opificio Siri, gli Studios di Papigno. Si è tentato di aprire nuove facoltà universitarie legate alla realtà del territorio. Alla fine degli anni Ottanta c'è stato un convegno in cui è emerso chiaramente che stava finendo la storia industriale della città, è cambiato il governo della conca con la parentesi Ciaurro, nel 2008 la Diocesi ha organizzato un convegno sul futuro della città in cui i motivi della crisi apparivano chiari non solo al mondo cattolico. Ma poi cosa è mancato per tracciare, o seguire, nuove vie?
«Non si è voluto rischiare - aggiunge Armillei - e questo non solo da parte dei politici che hanno amministrato la città, ma anche da parte degli imprenditori, delle istituzioni e perfino della scuola. La Camera di Commercio ad esempio in altre realtà ha scommesso su soggetti in grado di richiamare gente da fuori che faccia investimenti, non si sono parcellizzati gli interventi, ma concentrati. Per tutto il Novecento Terni ha goduto di una stabilità di modernità data dalla fabbrica, si modernizzava per input esterni. Anche quando c'è stata un'intuizione forte che avrebbe potuto cambiare, almeno in parte, il futuro è rimasta chiusa in se stessa senza trovare un aggancio al reale, senza che si creassero le condizioni per poter sviluppare quell'idea, non si è creato un tessuto parallelo». Viene chiamata in causa l'Università, o meglio l'incapacità di creare alternative ternane capaci di attrarre giovani, cultura, tecnologia: «Non c'è città europea che sia cresciuta e abbia cambiato vocazione senza una università attrattiva».
STUDIARE, STUDIARE
«Se vogliamo continuare a ritenerci, ed essere, moderni dobbiamo studiare, studiare e studiare», - interviene Lucilla Galeazzi cantante popolare ternana che tiene concerti in tutto il mondo cantando le melodie delle centurinare e della Terni operaia. «Mettiamo da parte l'acciaio e guardiamo dritto avanti, ma dobbiamo essere preparati alle nuove sfide. Inutile piangersi addosso. Siamo concreti ed operativi. Proponiamo», suggerisce con la grinta che la contraddistingue.
Affonda il coltello anche Marco Plini, regista ternano che da anni lavora a Milano e all'estero. «Anche idee geniali come è stata quella di dar vita al Festival dell'arte contemporanea al Caos sono rimaste chiuse, non sono state capaci di parlare con la città. Interessavano ad una ristrettissima cerchia di persone. Per me il gap è formativo - dice Plini- si deve educare il pubblico, io devo poter andare a teatro e scoprire che quel qualcosa che vedo sul palco mi rappresenta. Altrimenti ci dovremmo chiedere se veramente i ternani vogliono un teatro, hanno esigenza di cultura al di là delle apparenze. Quanti stanno aspettando che riapra il Verdi per andare a vedere una rappresentazione? Quanti prima che chiudesse, lo frequentavano assiduamente?». Provocazioni che portano risposte amare. Dal forum organizzato presso la redazione del Messaggero si smonta un altro luogo comune: l'idea che Terni fosse stata un'isola felice, ricca, dove si viveva bene. «Ma dove?», rintuzza Plini. «Quando è arrivato il Progetto Mandela sembrava lo sbarco sulla luna per noi giovani d'allora, non avevamo davvero nessuna proposta culturale».
Eppure i benefici dell'apertura ad altre strade si erano visti anche se episodici. «Io dieci anni fa, quando funzionava il Centro Multimediale andavo a cena, nei ristoranti di Terni con Tornatore e Pupi Avati, ora non ci vado più neanche fuori. Quando tutto è naufragato mi sono dovuto reinventare e dire addio ad un sogno che aveva cominciato a concretizzarsi in maniera reale e mi aveva portato tantissimo lavoro», racconta Tommaso Moroni organizzatore di eventi che si è laureato presso la facoltà di Scienze e tecnologia della produzione artistica ed aveva sfruttato quel titolo per organizzare a Terni tutto quello che serviva alle varie troupe che venivano a girare film nella città dell'acciaio: dalle location agli interni e così via. Per Moroni quella del Centro Multimediale e di Papigno è stata una meteora che non si è più ripresentata.
METEORE
«Per un periodo ho lavorato fuori- dice Moroni- ma di certo a Roma o Milano non avevo le opportunità di quando lavoravo nella mia città, la conoscenza del territorio, dei paesaggi, dei borghi, gli agganci con le persone. Tutto un valore aggiunto che mi è stato prezioso. Quando sono tornato ed ho ricominciato a lavorare qui a Terni ho trovato tantissime difficoltà. E sono le stesse di oggi, anche se sono cambiati gli assetti politici. Non ti senti aiutato, supportato nel tuo lavoro. La creatività non viene valutata affatto. E allora ho smesso di organizzare quello che facevo per la cultura e per l'arte. Ad esempio non organizzo più il Festival di San Valentino che era una vetrina per giovani talenti locali. Adesso il lavoro è rivolto soprattutto alle aziende. Lontano dal cuore della città.
 
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