Brunori Sas, tra paure e ironia: «Ai miei fan dico: non amatemi troppo»

Brunori Sas
di Filippo Bernardi
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Lunedì 3 Aprile 2017, 18:32 - Ultimo aggiornamento: 10 Aprile, 13:46

Regola numero uno: non cantare troppo ai suoi concerti. Regola numero due: se proprio non si può resistere, cercare almeno di non stonare. Regola numero tre: non esagerare con gli elogi. È dura la vita del fan di Brunori Sas. Più che un fan, deve essere un anti-fan dotato di inscalfibile ironia proprio come il cantautore calabrese giunto al suo quarto album di inediti, "A casa tutto bene". Scherza, Dario Brunori, classe '77. Ma neanche troppo, perché l'artista barbuto (la barba, insieme ai suoi occhiali dalla montatura spessa sono ormai il suo segno estetico distintivo tanto che a Brindisi c'è stato addirittura chi ne ha fatto il logo per una caffetteria) non riesce a prendersi troppo sul serio e mal tollera che lo facciano gli altri. E del resto da uno che nelle dodici tracce del suo disco parla soprattutto di paure («Paura di cambiare, di deludere, di osare, di ciò che non conosci» e di molto altro ancora) c'è da aspettarselo. 
 



Il primo aprile hai suonato all'Atlantico Live di Roma e il 4 luglio tornerai nella capitale per il Postepay Sound Rock. Collezioni sold out. È un momento decisamente favorevole...
«Posso dire tutto bene non solo a casa ma anche fuori casa, infatti è un problema perché non mi posso lamentare e per me è un po' un dramma. Però col fatto che mi lamento di non potermi lamentare ho risolto: mi lamento comunque. Però non c'è da lamentarsi. Anche a Roma c'è stata una grande risposta di pubblico e al di là dei numeri che hanno la loro importranza e non lo nego, c'è da dire che il pubblico è molto affettuoso, molto caldo, partecipa attivamente al concerto tanto che a volte li devo sedare perché mi danno pure fastidio...»

Addirittura?
«Sì, sì. Cantano troppo e mi mandano fuori tempo perché il pubblico, si sa, è stonato, non ha il senso del tempo e quindi dovrebbe stare un po' al proprio posto ma non ci riescono...»

Il filo conduttore del disco è la paura. Tu hai detto che scrivere qualcosa di leggero «in questo momento» ti sembrava troppo comodo. Cosa intendi?
«Io ho una naturale tendenza a vivere in modo molto fantasioso la realtà, vivo quasi più di immaginazione che di vita vissuta. Mi sono detto che scrivere un disco che non si occupasse di quella realtà che bussava alla mia porta forse era un po' comodo. Anche in passato ho trattato tematiche sociali ma l'ho sempre fatto sia con un linguaggio volutamente non contemporaneo sia con il filtro dell'ironia. Stavolta volevo fosse diverso».

Quanta Calabria c'è nella tua musica?
«Sono convinto fortemente che il contesto influenzi la visione del mondo di ognuno di noi. Credo che la calabresità, soprattutto in questo album, mi abbia dato un certo tipo di attitudine e uno sguardo che forse rimane di provincia ma nel senso buono: nei pezzi c'è quasi sempre lo scontro, o l'incontro, tra una parte di me che vuole vivere il presente ed è molto aperto a ciò che il presente propone e lo sguardo dei miei nonni che è critico ma non reazionario verso alcuni imput che subisco costantemente

Una parte importante del tuo pubblico è fatto di universitari. Ti sei dato una spiegazione?
«Non lo so e devo dire che negli ultimi tempi il pubblico si è fatto più trasversale e ne sono felice perché fin dall'inizio ho scritto canzoni e secondo me la canzone è uno strumento che non deve essere pensato mai per parlare a un determinato pubblico circoscritto. Forse c'è una parte di me che ha un modo di raccontare più giovane della mia stessa età. Ma non ho mai analizzato troppo anche perché ho paura che se poi analizzo comincio a diventare mentale e a scrivere di conseguenza. Prefersico non concentrare troppo cervello nelle cose».


 

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