Folco Terzani: io e i diari di mio padre,
la voce di uno spirito libero

Folco Terzani: io e i diari di mio padre, la voce di uno spirito libero
di Stefano Ardito
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Lunedì 12 Maggio 2014, 13:18 - Ultimo aggiornamento: 18 Maggio, 09:55
“Non sono un intellettuale, sono solo un aspirapolvere: giro per il mondo raccogliendo storie”. In questa frase, pronunciata trent’anni fa e annotata poche ore pi tardi nel suo diario, c’ un aspetto importante di Tiziano Terzani. Il giornalista fiorentino, grande esperto e grande innamorato dell’Asia, è stato ucciso nel 2004 da un cancro che aveva raccontato giorno per giorno.



In questi anni, Tiziano Terzani è rimasto accanto a noi grazie alle riedizioni dei suoi libri-reportage, da “Buonanotte signor Lenin” a “Un indovino mi disse”, e da “Giaiphong-La liberazione di Saigon” a “In Asia”. E grazie a “La fine è il mio inizio”, un libro che Tiziano ha dettato a un registratore, e che è uscito nel 2006 a cura del figlio Folco.



Ora arriva in libreria un volume completamente diverso. “Un’idea di destino” (Longanesi, 496 pagine, 19,90 euro) è la raccolta dei diari che Terzani ha scritto dal 1984 al 2003, e che sono stati riscoperti nella loro casa di Firenze dalla moglie Angela. L’edizione è a cura di Alen Loreti.



A parlarci dei diari e di suo padre è invece Folco Terzani. Uno scrittore e documentarista di quarantacinque anni, in bilico tra Firenze, l’America e l’Asia. Un uomo che fa i conti ogni giorno con la memoria di un padre straordinario e ingombrante.



Che effetto le ha fatto leggere i diari di suo padre?



Per me è stata un’esperienza elettrizzante. Nei suoi articoli e nei suoi libri mio padre scriveva da giornalista, con professionalità e con durezza. Nei diari c’è proprio lui, in prima persona. Per chi non lo conosceva credo che scoprirlo così aperto e schietto sia divertente.



E’ stata la sua prima esperienza di questo tipo?



No, la seconda. Subito dopo la sua morte, quando ho curato “La fine è il mio inizio” ho scoperto molto di lui. Su alcune cose non ero d’accordo, ma ascoltare e trascrivere le sue parole mi ha aiutato a capirlo meglio. E’ stato importante per accettare la sua morte.



Quando lei e sua sorella Saskia eravate bambini, e poi adolescenti, avete girato come trottole per l’Asia. Singapore, Pechino, Hong Kong, Tokyo, Bangkok, Delhi. Non si è sentito sballottato?



Assolutamente no. La nostra era una famiglia solida, autosufficiente. Quando avevo undici anni sono stato mandato in una scuola cinese. Mio padre ha scritto di avermi costretto, io l’ho vissuta come un’esperienza normale, tranquilla.



Suo padre era sempre in viaggio o riusciva ad avere del tempo per voi?



Era un gran lavoratore, ma quando aveva scritto e spedito il suo pezzo stava con noi. Il problema era che prendeva tutto sul serio, che voleva sempre parlare dei grandi problemi. Invece qualche volta, a tavola, fa bene parlare di cose da poco.



Nel 1984 suo padre è stato arrestato, e poi espulso dalla Cina, che aveva raccontato in maniera troppo libera. Anche quella per lei e Saskia è stata un’esperienza tranquilla?



Mia madre è stata bravissima, ci ha protetto. Io avevo 14 anni, ho capito che c’era un problema, ma non ho avuto angosce o paure.



Nel diario del 1999 suo padre ha scritto “viaggiare è un’arte. Il problema è che oggi viaggiano tutti, e con ciò si rovina il mondo, si inviliscono i veri viaggiatori”. E’ d’accordo?



Sì, ma solo in parte. Oggi, per molti, viaggiare è come andare al cinema. Si compra un biglietto, si va nei posti già visti in televisione o sul web, si rifanno delle foto che abbiamo già viste molte volte. In Cina, con mio padre, mia sorella e mia madre, siamo stati i primi stranieri ad arrivare in molte zone remote. Ricordo i vetri dell’auto, neri di facce che guardavano noi.



Si può ancora viaggiare in modo autentico?



Certo! Mio padre diceva “se vuoi capire l’India vai in un villaggio a cercare gli incantatori di serpenti!”. Bisogna andare in India senza vedere il Taj Mahal, in Egitto senza vedere le Piramidi, a Roma senza vedere il Colosseo.



Lei va spesso in India, che è un paese con molte facce diverse. Cosa la affascina?



Sono sempre stato affascinato dai sadhu, gli asceti induisti. Nel mio libro “A piedi nudi sulla terra”, pubblicato da Mondadori nel 2011, ho raccontato la storia di un italiano che ha scelto di diventare uno di loro.



Suo padre, fiorentino purosangue, ha avuto delle parole molto dure per Firenze. In degli appunti del 1984 la descrive come “una città sempre più bottegaia”, dove si sentiva un estraneo.



Firenze è rimasta la sua casa, la nostra casa. Ma il vero rifugio, per tutti noi, era l’Orsigna, un minuscolo borgo dell’Appennino pistoiese. Mio padre ha costruito una casa, io ci passo molto tempo anche oggi.



E riuscivate a stare insieme, all’Orsigna?



Sì, compatibilmente con gli impegni di mio padre. Arrivava da noi, si mangiava, si andava a cercare funghi o a camminare nella neve, si andava a dormire nei boschi con la tenda. E poi via, era già ripartito un’altra volta.
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