Calvino e l'America i diari profetici di un curioso geniale

Calvino e l'America i diari profetici di un curioso geniale
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Domenica 9 Novembre 2014, 06:09
L'INEDITO
Partendo per gli Stati Uniti, si era ripromesso di non raccontare la sua esperienza. Poi aveva cambiato idea. «I libri di viaggio sono un modo utile, modesto eppure completo di fare letteratura. Servono praticamente, anche se, o proprio perché, i paesi cambiano d'anno in anno e fissandoli come li si è visti se ne registra la mutevole essenza». Quel libro ora c'è, ma a distanza di più di cinquanta anni: è il nuovo libro postumo di Italo Calvino con il titolo da lui voluto: Un ottimista in America. Una gestazione complicata, lo scrittore lo aveva fermato alle seconde bozze. «Troppo modesto come opera letteraria e non abbastanza originale come reportage», aveva detto nel 1985, ma era ancora in dubbio, «sarebbe stato comunque un documento d'epoca». E meno male che c'è, nonostante le perplessità d'autore: perché è brillante, pieno di energia e idee, cose viste e riflessioni sul campo miscelate sapientemente, «al di là della descrizione dei luoghi, un rapporto tra sé e la realtà, un processo di conoscenza». Con un narratore-cronista che saltella da ogni parte. Disinvolto e insolitamente quasi mondano, conversatore ironico e amabile in parties d'ogni tipo che vuole comprendere la realtà dal di dentro, «da antropologo e cibernetico», vuole spiegare come funziona il sistema America.
Grazie a una borsa della Ford Foundation, Calvino soggiorna negli Stati Uniti sei mesi, dal novembre del 59. Si ferma più tempo a New York, «città impregnata di elettricità», percorrendola nelle sue strade dove improvvisamente non si può circolare per le prove di un allarme atomico, tra i fumi di riscaldamento che escono dai tombini, dal Village alla Bowery con le tante tragedie individuali. Ma attraversa in lungo e largo il resto del Paese, Chicago, Detroit, la California, il Texas, il Sud, la provincia americana col suo uniforme “color parcheggio”, la piatta e squallida Los Angeles, “città fatta di mille periferie”, la dura Chicago materiale e produttiva. Scopre fast food, supermercati, paperback e il televisore a colori, ma anche l'attualità sociale e politica, la rivolta dei neri e Luther King, il lavoro femminile e i sindacati, la vita degli indiani nelle riserve e le cerimonie nelle sinagoghe, i rituali delle sedute psicoanalitiche in cui l'America laica si libera della tutela «dei pastori e dei confessori per accollarsene un'altra». Scopre anche tante storie, schegge di racconti, l'intellettuale divorziato con un giorno da passare con la figlia e lo spende giocando con lei, il professore di Berkeley che si è costruito la casa con le sue mani, le due furbe spogliarelliste che gli riempiono il bicchiere e lo confondono, il ghost-writer che ha scritto di tutto, dall'astronomia ai ricordi di un suonatore di jazz. Intervista gli abitanti del Village con quel po' di storia sociale che possiedono, frequenta l'Actor's Studio di Strasberg, una fabbrica di calcolatori in cui si vendono anche motoscafi. Loda la politica fiscale che consente alle fondazioni di godere di donazioni private. Studia la forma della fanaleria delle auto e gli opuscoletti per l'investimento in borsa con massime di grandi filosofi. Parla con i potenti leader sindacali degli scaricatori di San Francisco. Assiste a malinconici spettacoli di burlesque, va a cavallo in Central Park, si accorge che i beatnik sono dei bravi borghesi. Ma scopre anche il degrado urbano, gli alcolizzati, e la loro «oscura religione di autoannientamento». Quella americana «è la società della fiducia o dell'ansia», in cui si vende l'auto prima di aver finito di pagare le rate, in cui le case non le paga chi le compra, ma le banche. La bolla finanziaria preannunziata qualche decennio prima…
Renato Minore
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