Andrea Morante, ad di Pomellato: «Ecco perché, da imprenditore del made in Italy, sono ottimista»

Andrea Morante, ad di Pomellato: «Ecco perché, da imprenditore del made in Italy, sono ottimista»
di Maria Latella
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Venerdì 14 Novembre 2014, 14:39 - Ultimo aggiornamento: 17 Novembre, 20:33
Fuori c'è un po' di Giappone, dentro molta pop art e molto colore.

La sede milanese di Pomellato e l'ufficio del suo amministratore delegato (nonché azionista di minoranza della RA.MO) Andrea Morante sono una sintesi tra la pace Zen del giardino giapponese che si vede dalla porta finestra e l'energia della pop art che ti guarda dalle pareti della sua stanza. In fondo anche Andrea Morante è stato, ed è, molte cose insieme. E' stato allievo di Federico Caffè, a Roma, ma quando ancora i più puntavano a una carriera in Italia se n'è andato subito via, a Londra, corporate banker per Morgan Stanley e poi Credit Suisse. Da Londra, però, continua a puntare sull'Italia, gestendo la privatizzazione dell'Eni, occupandosi delle diversificazioni della famiglia Benetton o della fusione fra San Paolo di Torino e Imi. Poi, l'incontro col lusso, ai tempi della ristrutturazione di Gucci. Da lì all'ingresso nel mondo Pomellato il passo è stato breve e il percorso, a guardarlo da fuori, tutto in discesa. Compresa la fase in cui da azienda familiare Pomellato ha deciso di diventare azienda globale, accettando l'offerta dei francesi Pinault e del gruppo Kering. Ma è una storia che racconta bene lui, Andrea Morante, nei giorni in cui l'azienda festeggia i venti anni di Dodo, il pennuto che ha anticipato la linea di gioielli low cost.



«Ho trascorso due terzi della mia vita nella finanza. Per me, negli anni ’80, finanza era comprare e vendere aziende. Poi è diventata quella raccontata nel film di Scorsese, “Il lupo di Wall Street”, quella dei trader senza scrupoli che investono cifre gigantesche che non sono mai le loro. Io facevo un'altra cosa: finanza per le aziende che volevano fare acquisizioni per crescere o volevano quotarsi».



Gli imprenditori italiani accettano consigli? Spesso si ha l'impressione che preferiscano vendere piuttosto che seguire i suggerimenti altrui e non contare più come prima in casa propria.

«L'imprenditore ha bisogno di tempo per rendersi conto della bontà di certi suggerimenti. Dev'esserci fiducia e anche amicizia. Poi, nonostante la fiducia e l'amicizia che può instaurarsi tra finanziere e imprenditore, in quest'ultimo resta sempre una traccia di sospetto, un inespresso timore di essere defraudato. Per anni ho fatto questo, ho aiutare le imprese a crescere, a superare certi limiti. Così, a un certo punto, ho pensato di farlo io, di diventare imprenditore».



È successo dopo l'incontro con Pino Rabolini, proprietario e fondatore di Pomellato. Qual è la differenza tra rischiare soldi degli altri e rischiare in proprio?

«I passaggi da un settore all'altro sono arricchenti, fare sempre la stessa cosa è un limite. Limite che spesso riguarda gli imprenditori. Sono talmente presi da quello che stanno facendo che si disinteressano di quel che fanno i loro competitors, non si informano. Io lo chiamo narcisismo aziendale. Fin quando indovini la strada, tutto va bene, ma se le cose cambiano e non si è preparati, diventa un problema».



Facciamo qualche esempio. Chi, tra i grandi imprenditori italiani, ha capito per tempo il cambiamento?

«Luxottica conta su un imprenditore che ha raggiunto il più grande dei successi. Del Vecchio ha avuto la lungimiranza di capire quando era il momento di trasferire il potere al manager».



Veramente nei mesi scorsi Del Vecchio ha ripreso in mano l'azienda... E prima l'ad Guerra poi Cavatorta se ne sono andati.

«E' vero, sembrava aver cambiato strategia, ma forse le cose stanno tornando allo stato di prima. Vedremo. Con i Benetton, invece, il cambiamento non c'è mai stato e la gestione è sempre rimasta saldamente in mano alla famiglia».



Quanto contano, in queste scelte aziendal-familiari, i sensi di colpa dei padri nei confronti dei figli?

«Contano. Un ottimo imprenditore è di solito un pessimo padre. Con le eccezioni, si capisce. Se dedica all'impresa tutto il suo tempo, l'affetto, la devozione, per la famiglia resta poco. C'è uno scompenso naturale. Per questo, prima o poi, arriva la seconda fase, quella in cui l'imprenditore cerca una compensazione. Come? Dando al figlio l'azienda. Così, pensa, recupero il tempo perduto. Ma il tempo non si recupera e, molto spesso, la scelta si rivela sbagliata perché non è preceduta dalla domanda più seria: mio figlio ha le competenze, le capacità e l'interesse per gestire l'azienda? I passaggi generazionali sono spesso dispersione di aziende».



Con Pomellato invece non è andata così.

«No. Io dico sempre che Rabolini ha compiuto tre miracoli. Primo: ha scelto di dare le chiavi della sua macchina al management. Lui si è messo totalmente fuori dalla gestione, con convinzione e senza ripensamenti. Secondo miracolo: ha saputo trovare un accordo col figlio. Sono azionisti attenti ma non intervengono nella gestione. Terzo: quando si è trattato di dover consegnare la sua azienda l'ha fatto cercando di dare continuità alla gente che ci lavora. Rabolini è più legato agli operai che al management. Così, con queste premesse, si è conservato il Dna dell'azienda. Abbiamo passato ore e ore a pensare quale potesse essere l'azienda che sapesse correre meglio di noi».



Come vede il futuro del mondo del lusso italiano? Diventerà per due terzi francese e per un terzo cinese?

«Fino a qualche tempo fa prevedevo una graduale ma inesorabile cessione di marchi italiani. Ero più pessimista. Oggi lo sono meno. Negli anni in cui lavoravo con Maurizio Gucci pensammo di usare la Gucci come piattaforma di marchi italiani del lusso. Cominciammo comprando la Pineider. La visione era quella ma non ci siamo riusciti».



Perché?

«Purtroppo quando hai fatto l’imprenditore hai difficoltà a innamorarti di un business che non sia il tuo. Ci sono stati anche altri tentativi, qualcuno ha cercato di acquistare Valentino, per esempio, ma non sono andati a buon fine».



Diceva che ora si sente più ottimista...

«Per il settore del food certamente: vedo la capacità tutta italiana di creare un business nuovo. Ma anche nel lusso. Cito due brand di cui si parla in questi giorni: Moncler di Remo Ruffini e Cucinelli... Andare controcorrente e fare cose che gli altri non fanno: solo così si crea lavoro».
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