Bellocchio azzanna il Festival, Sangue del mio sangue racconta in maniera magistrale il Paese

Bellocchio azzanna il Festival, Sangue del mio sangue racconta in maniera magistrale il Paese
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Martedì 8 Settembre 2015, 17:18 - Ultimo aggiornamento: 15 Settembre, 13:03
dal nostro inviato Fabio Ferzetti

VENEZIA - Ci voleva Marco Bellocchio per farci capire tutto dell’Italia di oggi e di sempre con un dialogo tra un dentista e un suo paziente.



Ci voleva l’ex-ragazzo prodigio dei Pugni in tasca, 26 anni allora, 76 oggi, per riuscire in un film folle e coerente come Sangue del mio sangue. Ci voleva un regista che torna da sempre sugli stessi luoghi e gli stessi nodi, cavandone ogni volta suggestioni nuove, per indovinare un film composto da due blocchi distinti che fondono in un discorso vibrante e spesso esilarante cose a prima vista lontane come un processo per stregoneria nel Seicento e le beghe di un paesino di oggi gestito da un potere morbido e invisibile, obliquo e vampiresco, insomma “democristiano” nel senso più atemporale del termine.



Atto uno: dopo aver sedotto un sacerdote e poi suo fratello, uomo d’armi inquieto e forse stanco (Pier Giorgio Bellocchio), una giovane monaca viene interrogata, sottoposta a prove crudeli, infine murata viva nel convento di Bobbio (Lidiya Liberman, una scoperta). Atto due: sono passati secoli, quel convento abbandonato oggi è un luogo umido e malsano, ci vivono solo un custode codardo e il misterioso Conte Basta, che esce solo di notte (meraviglioso Roberto Herlitzka). Ma il convento fa gola a un ricco russo e a un losco funzionario in cerca d’affari (Ivan Franek e Piergiorgio Bellocchio, di nuovo). Così in paese serpeggia l’agitazione. Il Conte è costretto a uscire dalla sua tana e a autorizzare, con ribrezzo, l’uso del computer. Il falso funzionario scopre che in quel luogo ameno non tutto è come sembra, «i ciechi ci vedono, i morti sono vivi, i vivi sono morti», qualcuno ci lucra sopra. E via arpeggiando con accenti bizzarri e irresistibili sui temi, intrecciati, del potere e della corruzione. Da intendersi anche come vecchiaia, perché in tanto agitarsi il Conte e il suo lugubre dentista (il sempre fantastico Toni Bertorelli) scoprono che il tempo passa perfino per loro, che con qualche ragione si credevano eterni... e che l’innocenza, la bellezza, la gioventù, tutto ciò di cui si sono sempre nutriti, odiandolo, sono anche la vera sfida al potere che hanno costruito e gelosamente custodito da secoli. Come ci ricorda con un altro salto nel tempo il terzo atto.



Difficile dire altro senza sciupare la sorpresa di un film lieve e inventivo, politico e personalissimo, anche per l’uso di case, luoghi, persone di famiglia. Ma soprattutto follemente, orgogliosamente libero.



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