Roman Polanski: «La verità ormai non conta nulla»

Roman Polanski: «La verità ormai non conta nulla»
di Gloria Satta
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Martedì 19 Novembre 2019, 01:04 - Ultimo aggiornamento: 15:40

Roman Polanski, jeans e capelli allegramente spettinati, sorseggia acqua minerale nel suo studio parigino situato in un elegante e super-sorvegliato condominio a due passi da Champs Elysées. Al piano di sotto c'è l'appartamento in cui il regista, 86 anni, vive con la moglie Emmanuelle Seigner e i loro due figli Morgane e Elvis. «Il mio vero successo non riguarda il cinema: è aver creato una famiglia felice», rivela.

L'autore premio Oscar di capolavori come Rosemary's Baby, Chinatown, Il Pianista appare disteso e si muove agile come un gatto mentre fuori è l'inferno: la recente accusa dell'ex modella Valentine Monnier, che ha raccontato ai giornali di essere stata violentata da lui 44 anni fa, sta scuotendo la Francia. Ma, nonostante il boicottaggio delle femministe, l'ultimo film di Polanski L'ufficiale e la spia, Leone d'argento a Venezia, sta sbancando i botteghini (esce da noi il 21 novembre). «Ha raccolto 500mila spettatori in un week end, un record: il pubblico ama il grande cinema al di là del gossip», esclama Luca Barbareschi che si è battuto sei anni per produrre, con i francesi e RaiCinema, questa potentissima opera dell'amico Roman, ispirata al caso ottocentesco dell'ufficiale ebreo Alfred Dreyfus ingiustamente condannato per spionaggio e poi scagionato.
 



Dell'ultimo, presunto stupro Polanski non parla, lasciando al suo avvocato Hervé Tenime il compito di respingere ogni accusa. Ancora a rischio di finire in carcere per l'abuso del 1977 su una minorenne (non lascia la Francia per non venire estradato negli Usa), il regista racconta invece con entusiasmo L'ufficiale e la spia che ha per protagonista Marie-Georges Picquart (lo interpreta il premio Oscar Jean Dujardin), il colonnello che si batté per dimostrare l'innocenza di Dreyfus (Louis Garrel). Emmanuelle Seigner fa l'amante di Picquart.

Che cosa l'ha spinta a riproporre quell'episodio storico?
«Un vecchio film americano su Emile Zola, l'autore del famoso J'accuse in difesa di Dreyfus. La scena della degradazione mi è rimasta in testa per anni invogliandomi a raccontare quella storia affascinante che affronta temi attualissimi: false verità, antisemitismo, ingiustizia».

Pensa che ingiustizia e mistificazione abbiano colpito anche lei, girare il film è stato dunque catartico?
«No, non considero il lavoro una terapia. Ma molte dinamiche esistenti dietro il sistema persecutorio mostrato nel film mi sono familiari».

Oggi potrebbe ripetersi, secondo lei, un caso Dreyfus?
«La vicenda racconta un errore compiuto dall'esercito e l'ostinazione nel non volerlo ammettere: è un atteggiamento tuttora praticato da grandi istituzioni come lo stesso esercito, la Chiesa, la stampa».

Ritiene che i media si siano comportati male con lei?
«Mi hanno fatto molti torti, raccontando un sacco di balle sul mio conto. Tutto iniziò nel 1969 con l'assassinio di mia moglie Sharon Tate, la grande tragedia della mia vita».

Cosa intende?
«Finché non si è arrivati alla setta di Charles Manson, il caso sembrava così inspiegabile che è stato più facile addossarmene ignobilmente la responsabilità su uno sfondo di presunto satanismo. Da vittima, fui trasformato in un mostro... I media continuano ad accusarmi, aggiungendo strati alla palla di neve della mia reputazione. Escono storie assurde di donne mai conosciute che mi addebitano fatti accaduti in teoria decenni fa. Difendersi è come combattere contro i mulini a vento».

Crede di essere un bersaglio del maccartismo femminista?
«Dico soltanto che oggi non esiste più l'equo processo. Viviamo in un'epoca di post-verità in cui i fatti non contano: l'unica verità è quella delle emozioni».

Si sente una vittima di questa situazione?
«No, ma ne soffro. E non sono l'unico».

Ha visto C'era una volta a Hollywood, il film di Tarantino sul massacro del 1969?
«No. Volevo evitare di dover poi esprimere un giudizio».

Perché ha denunciato l'Academy che nel 2018 l'ha espulsa?
«La decisione è stata presa ingiustamente e senza ascoltarmi: l'ho saputo dai media. Sono membro dell'Academy dal 1969 e prima dell'espulsione c'è stato questo (indica l'Oscar, vinto nel 2003 per il Pianista, che brilla in un ripiano della libreria in mezzo a tanti altri premi, ndr)».

Picquart è un eroe del passato, chi sono gli eroi attuali?
«Gorbaciov, che ci ha liberati dallo stalinismo. E i whistleblowers come Edward Snowden o Julian Assange che attraverso la tecnologia smascherano gli abusi del potere».

Oggi vede una recrudescenza dell'antisemitismo?
«Certo. Le cronache ci dimostrano ogni giorno che contro gli ebrei crescono intolleranza e pregiudizi. E che si sta perdendo la memoria del passato».

Che valori pensa di aver trasmesso ai suoi figli?
«L'amore per la verità, l'onestà, il rispetto del lavoro. Solo Morgane, 26 anni, vuol fare cinema: dopo aver studiato arte drammatica e interpretato la serie Vikings ha perso interesse per la recitazione e pensa alla regia».

Cosa la mantiene in forma?
«La curiosità e lo sci che pratico regolarmente».

Il futuro del cinema è al di fuori dalla sala?
«Gli antichi greci profetizzavano la fine del teatro, i romani la sparizione del circo... malgrado lo streaming, la gente vuole ancora gustare il cinema in compagnia, sul grande schermo. Immagina un film come Borat guardato sul tablet? Assurdo. La risata va condivisa».

Faceva ridere anche Barton Fink, la commedia dei fratelli Coen a cui nel 1991, da presidente della Giuria a Cannes, assegnò la Palma d'oro e gli altri premi principali.
«Il film li meritava! Subito dopo, il Festival proibì di affiancare altri premi alla Palma in nome della filosofia marxista che prescriveva di dare una caramella a ciascuno. Penso alle gare senza vincitori della Cina maoista...».

Lei invece è competitivo?
«Sì. La vita è una continua competizione».
 

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