Il tutto osservato nell’arco non di pochi mesi ma di dieci anni, perché la storia dei due protagonisti sopravvive a un matrimonio, a un figlio e anche a un divorzio, trasformandosi ma senza sostanzialmente cambiare le dinamiche distruttive che si porta dentro. È Mon Roi, cioè “Il mio re”, diretto dall’attrice e regista Maïwenn, che in Francia è una star mentre da noi è nota solo per Polisse.
Dominato da un magnetico Vincent Cassel, ristoratore, uomo d’affari, viveur incontenibile e seduttore seriale, ma tutto visto con gli occhi della sua “vittima” Emmanuelle Bercot, sarebbe stato un film notevole se la regista e il suo sceneggiatore non fossero caduti preda del loro stesso gioco. E a forza di moltiplicare le trovate, le piroette, le astuzie, le spiritosaggini, le scene ad effetto, i voltafaccia clamorosi e spesso davvero imperdonabili del protagonista, non avessere realizzato un film brillante, inaffidabile e alla lunga irritante proprio come l’irresistibile Cassel.
Peccato, perché il tema oltre che forte è attualissimo e i due protagonisti fanno davvero scintille (la Bercot, per la cronaca, è anche regista del film che ha aperto il festival fuori concorso, La tete haute).
Ma Mon roi soccombe al difetto più assurdamente diffuso nel cinema di oggi: la mancanza di misura, l’incapacità di togliere dal film tutto ciò che non serve, l’arte di dosare pesi e contrappesi del racconto. Forse anche agli autori ogni tanto una terapia di disintossicazione farebbe bene.
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