Sei giorni dopo, il 20 luglio, il primo americano sbarcava sulla luna e un mese dopo, il 15 agosto, Jimi Hendrix infiammava il popolo di Woodstock in uno dei concerti/raduni che hanno fatto la storia della gioventù ribelle. A ottobre se ne sarebbe andato Jack Kerouac il cui «Sulla strada» può a buon diritto essere citato come la Bibbia laica dei protagonisti di «Easy Rider», da sempre riconosciuto come il film «on the road» per eccellenza. Non è automatico spiegarsi il folgorante e immediato successo di una pellicola indipendente e senza attori famosi, apparentemente sfilacciata e quasi senza trama (la sceneggiatura del resto veniva volutamente improvvisata giorno per giorno), con un finale atroce e senza speranza, riflesso di una generazione che andava forzatamente a combattere in Vietnam e in pochi anni aveva visto cadere icone popolari e giovanili pur nelle profonde diversità come John Kennedy, Malcolm X e Martin Luther King.
Eppure il miracolo accadde e fu tanto sfolgorante da cambiare per sempre l'atteggiamento delle grandi major verso una nuova generazione di autori. La nuova Hollywood dei Coppola, Altman, Scorsese, Cassavetes nasce proprio grazie a «Easy Rider» come riconobbe uno dei «figli» di quel successo, George Lucas che con le major avrebbe poi avuto un vero e proprio idillio nel segno del cinema «giovane». Del resto il mondo del cinema fu rapido a capire l'importanza dell'opera prima di Dennis Hopper: gli europei lo scoprirono con il premio per il migliore esordio al Festival di Cannes; gli americani con due nomination all'Oscar e poi una serie infinita di riconoscimenti che oggi gli valgono un posto nella «hall of fame» dei 100 film più importanti nella storia del cinema a stelle e strisce.
Quelle stesse «stars and stripes» che figurano sul casco di Wyatt e ne fanno un novello «Captain America», erede dell'ingenua ansia di libertà della creatura di Stan Lee, ingenuamente patriottico ma distante anni luce dalla grettezza retriva dell'America profonda. Quelle stesse stelle e strisce che bruciano con la bandiera americana alla fine del viaggio, sigillo di una tragedia con cui il regista seppelliva il sogno americano delle grandi praterie e di una nazione benigna e generosa. In effetti se si ripercorre la trama di «Easy Rider» si scopre subito l'intento di Dennis Hopper: i due moderni cowboy che attraversano le sconfinate distese dell'ovest e del sud, dalla California a New Orleans non sono certo santerellini (hanno comprato i loro leggendari «chopper» con un carico di cocaina importato dal Messico), ma sulla strada si imbattono nei veri mostri, portabandiera dei buoni sentimenti e dei probi comportamenti: poliziotti brutali, cittadini rancorosi e ubriaconi, autentici assassini protetti dall'anonimato.
In alternativa ci sono solo un hippy inoffensivo e «fumato», due allegre ragazze da bordello e un avvocaticchio figlio di papà (Jack Nicholson) che per poche ore assapora con i due «pards» il profumo della libertà e per questo morirà per primo. «Easy Rider» è una ballata triste in cui gli sterminati spazi della cavalcata ricordano il west di Sam Peckimpah e si contrappongono agli spazi angusti del «Laureato» di Mike Nichols (altra icona cinematografica del periodo) così come il timido Dustin Hoffman corrisponde allo sfrontato Peter Fonda.
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