Alan Parker sul set con Madonna
A Roma per ricevere il Nastro D’argento europeo che gli veniva assegnato dal sindacato giornalisti cinematografici («E’ la prima volta che ottengo un premio della critica e ne sono lusingato»), Parker non aveva voglia di polemizzare con gli americani: «La disattenzione verso il mio film si spiega, forse, col fatto che Evita è un grande musical, un kolossal, e invece l’Academy da sempre preferisce premiare pellicole meno pretenziose, che hanno bisogno di un piccolo aiuto. E poi - continuava il regista inglese - quest’anno sono in buona compagnia, con Allen, Bertolucci. È quasi un piacere». Diviso da sempre tra gli Usa e l’Europa, Parker confessava la sua «schizofrenia d’artista, il risultato di passioni e interessi sempre diversi. Non riesco, come molti francesi, a costruire venti versioni dello stesso film» e si dimostrava molto sincero quando spiegava: «Il mio rapporto con Hollywood? Per me è come un libretto di assegni. Finchè sono io ad usare loro mi va bene. Non ho mai subìto interferenze, e questa è una fortuna». E il destino del cinema europeo? «Mi preoccupa - rispondeva Parker - è vero che esiste uno strapotere degli americani ma è altrettanto vero che se crediamo al libero mercato dobbiamo darci da fare per migliorare i nostri film. Il cinema del vecchio continente sta pagando uno snobismo intellettuale che in gran parte l’ha distrutto». Nell’anno del trionfo degli ”indipendenti”, Alan Parker non frenava gli entusiasmi ma voleva chiarire come stavano le cose: «Evita è davvero indipendente, girato con soldi provenienti da molte parti del mondo. “Il paziente inglese” (che quell'anno si aggiudicò l'Oscar come miglior film n.d.r.), al contrario delle apparenze, non lo è, visto che è stato realizzato con i finanziamenti della Miramax. Io ho avuto estrema libertà di movimento, Anthony Minghella invece un sacco di problemi».
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