Matera ospita gli Stati generali della Scuola, l'esperta di pedagogia Rachele Furfaro: «Necessario un cambio di rotta»

Matera ospita gli Stati generali della Scuola, l'esperta di pedagogia Rachele Furfaro: «È necessario un cambio di rotta»
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Venerdì 9 Dicembre 2022, 12:30

Tre giorni di eventi rivolti al pubblico, dal 4 al 6 dicembre, dodici incontri, 60 relatori, un mese di lavoro in presenza nelle scuole di Matera: studenti, docenti e genitori sono stati interrogati da due facilitatori attraverso i questionari che restano aperti alla partecipazione di tutti sul sito https://www.statigeneraliscuola.com/il-manifesto/. Alcuni scatti dell'evento sono stati realizzati dal fotografo Luciano Anelli.

Gli Stati Generali della Scuola ideati dalla giornalista Elisa Forte e realizzati dalla Cooperativa “Voglia di bene” in co-progettazione con il Comune di Matera e con il contributo della Provincia di Matera ora si preparano alla diretta web, appuntamento finale della prima edizione, previsto il 17 dicembre. Tra gli scrittori che hanno partecipato, ricordiamo Christian Raimo, Mariapia Veladiano, Mila Spicola, Eraldo Affinati, Rachele Furfaro, che ha inaugurato i lavori: le abbiamo rivolto alcune domande. 

Rachele Furfaro è evidente che la pandemia è stata un’occasione sprecata per ripensare l’educazione dei ragazzi. Dunque, da dove occorre ripartire? Quali sono le prime tre priorità? 

La pandemia ha costituito l’ennesimo banco di prova, ma la scuola ha difficoltà a reagire in modo efficace ai problemi sempre più complessi e nuovi che la nostra società presenta. Eppure sono problemi che vengono da lontano: hanno radici nelle politiche economiche che hanno continuato a sottrarre investimenti al sistema educativo e ai servizi di welfare per l’infanzia e l’adolescenza. Le diseguaglianze in questi anni si sono acuite, penalizzando i più deboli. Soprattutto i bambini, e tra loro i meno fortunati: poveri, stranieri, disabili e bambini con bisogni speciali. Nel tempo sospeso della pandemia si sarebbe potuta cogliere l’occasione per riprogettare la scuola, si sarebbe potuto far nascere una scuola nuova. Invece siamo rientrati a scuola, dopo due anni, nelle stesse condizioni e regole degli ultimi decenni, che poi sono quelle del secolo passato. La pandemia era l’occasione per l’intera comunità scolastica di innovare tempi e luoghi del fare scuola, avremmo potuto approfondire la potenza delle relazioni educative, valorizzando i docenti e guardando con maggiore attenzione l’esperienza di crescita dei bambini. Questo significa mettere in discussione la scuola come luogo della memorizzazione, della trasmissione dei saperi, della ripetizione e verifica di quello che si è imparato, abbandonando l’idea della scuola come un organismo statico, da regolare con sempre nuove procedure burocratiche e vivendola come un organismo dinamico fatta dalle persone che la abitano.

In particolare, cosa si sarebbe dovuto fare, come sarebbe dovuta cambiare la scuola?

Questi due anni di vuoto avrebbero dovuto mettere in moto strategie in grado di generare un cambiamento auspicato e mai realizzato, verso scuole realmente inclusive, luoghi di accoglienza e di benessere in cui ognuno singolarmente e tutti collettivamente possano nutrirsi reciprocamente. Non basta concentrare risorse solo sul mettere in sicurezza aule e edifici, o attraverso indicazioni nazionali di nuovi ordinamenti. È necessario un cambio di rotta, per segnare la differenza con la vecchia scuola. Sradicando vecchi paradigmi, per una nuova scuola legata alla comunità, che sappia costruire ponti con altri mondi e altri saperi, non circoscritta a un solo tempo e a un solo spazio. Bisognerebbe partire da una capillare formazione in grado di accompagnare dirigenti, insegnanti, educatori e comunità scolastica verso la creazione di una nuova coscienza civica e una maggiore consapevolezza del proprio ruolo nella società. L’inesistenza di un modello educativo forte, di pratiche introiettate e consolidate, non ha infatti permesso agli insegnanti, durante la pandemia, di fronteggiare e introdurre cambiamenti senza perdere coerenza. Cioè non considerando la pandemia come un fatto, un evento a cui reagire lasciandoselo alle spalle il più presto possibile, e viverlo invece come un’esperienza che rimanda alla capacità di ognuno di accogliere gli eventi, digerirli emotivamente e renderli cibo per la mente. Ma per fare questo c’è bisogno di continua ricerca e formazione.

Secondo lei, dalla fine della fase critica della pandemia ad oggi, i governi che si sono succeduti si sono occupati e in che modo della scuola? 

Coerentemente con la storia del nostro paese, i ministri dell’Istruzione durano il tempo degli annunci e poi sono sostituiti. Senza entrare nel merito della qualità delle persone e delle proposte negli ultimi trent’anni, nessuno ha avuto il tempo e ha dimostrato la capacità di realizzare le riforme che ha annunciato. La scuola è ferma, mentre la società corre avanti, ad un ritmo serrato, senza sosta. Inoltre i governi che si sono succeduti in questi ultimi anni hanno avuto tutti un minimo comune denominatore nell’adottare la politica dei finanziamenti a pioggia senza assumersi la responsabilità di una scelta strategica sul cambiamento della scuola e sempre, questi interventi, hanno seguito la moda di turno oggi rappresentata dalla rincorsa al digitale, basti pensare alla scelta di formare obbligatoriamente 650 mila docenti proprio in questo ambito senza comprendere che le esigenze di formazione dei docenti dovrebbero essere sulle pratiche di educazione attiva e di didattica. Solo per portare come esempio, il Ministro Bianchi con il decreto 170 del 24 giugno 2022 assegnava alle scuole 500 milioni di euro della azione 1.4 della misura 4 del PNRR senza indicazioni chiare e verificabili su come accompagnare e monitorare le azioni che le scuole avrebbero messo in campo per contrastare i divari e la dispersione. Fondi che ancora oggi sono fermi nelle tesorerie delle scuole perché mancano i regolamenti di spesa.

Lei è una pedagogista, un’esperta del mondo della scuola, e la presidente di Foqus, Fondazione Quartieri Spagnoli. A fine estate è uscito il suo libro “La buona scuola” (Feltrinelli) che racconta come si è evoluta l’esperienza dei maestri di strada, verso una scuola che lavora per tenere lontani da malavita, spaccio e violenza bambini e adolescenti. Ci racconti tre esempi, tre modelli.

Nel libro non cito modelli, non credo che il metodo educativo sia schematizzabile.

Ogni contesto è diverso e chiede strumenti differenti. Ma sono convinta che occorra mettere in campo una strategia che tenga al centro i bambini. Le loro capacità di apprendere grazie alla curiosità e al senso di ricerca, che nei primi anni di vita sono altissime. La nostra scuola azzera quella predisposizione come un diserbante su un prato fertile. Occorre invece guardare i bambini, mettendosi in gioco come adulti e soprattutto dando loro tutto lo spazio espressivo che richiedono, porsi in definitiva come un argine di un enorme fiume in piena, potente e forte, rispettandone il libero flusso, accompagnando così la loro crescita. A mio avviso, nella scuola, si dovrebbe tornare a proporre a bambini e ragazzi di sperimentare il piacere di scoprire il mondo, mantenendo viva la capacità di meravigliarsi e di non perdere il gusto del gioco.

Cosa fa la sua Fondazione, da dove siete partiti e dove siete arrivati a Napoli con il vostro progetto? Un percorso calato in una zona d’Italia, Napoli, con il tasso più alto di dispersione scolastica.

Il prossimo anno saranno dieci anni da quando è iniziato il progetto di rigenerazione dei Quartieri Spagnoli di Napoli. È una rigenerazione a base educativa, che quindi pone l’educazione al centro dell’azione a favore del quartiere. In questi anni abbiamo aperto nuovi servizi educativi, insediato imprese giovanili, creato occupazione, inaugurato un centro per giovani con disabilità cognitive, animato una nuova vita culturale nel quartiere. Ogni giorno, nell’ex monastero che avevamo raccolto vuoto nel 2013, entrano più di 1500 persone a studiare, prendersi cura, fare impresa, costruire comunità. In questo quartiere i tassi di dispersione e abbandono scolastico raggiungono punte del 33%, tra i ragazzi tra gli 8 e i 14 anni. Abbiamo avviato programmi educativi speciali e attivi per loro, che stanno dando frutti importanti: 550 bambini seguono l’attività delle scuole, si sono creati 168 nuovi posti di lavoro, seguiamo la formazione di docenti in più di trenta città e stiamo andando a inaugurare un nuovo progetto educativo europeo.

Dove vuole arrivare?

Vorremmo poter condividere le nostre esperienze con le più avanzate metodologie didattiche italiane, offrendo l’esperienza, i successi e gli errori di questi anni. Come già facciamo con diverse istituzioni del Regno Unito, con cui collaboriamo per confrontarci sulle fragilità e le emergenze sociali di cui sono protagoniste le più giovani generazioni. La collaborazione con l’Ambasciata del regno Unito e con quella di Spagna in Italia, sono per noi importanti occasioni di confronto metodologico: la dispersione e i disagi delle giovani generazioni sono un problema europeo.

Agli Stati Generali della Scuola a Matera lei ha aperto la tre giorni, nel panel “Che scuola fa, che scuola verrà”.  Poi. è stata tra le più attente osservatrici e ascoltatrici dei contributi e delle testimonianze degli altri ospiti. Si è parlato di Edilizia scolastica e Pnrr, di Poli dell’Infanzia 0-6. A che punto siamo su questo fronte? 

A Matera abbiamo ascoltato esempi virtuosi di coprogettazione interistituzionale, come quello presentato dalla Regione Puglia, che ha visto lavorare insieme esperti di edilizia scolastica, responsabili attuativi del PNRR, docenti del politecnico, dirigenti della Regione e dei Comuni, insieme a operatori della scuola. Una reale coprogettazione per la realizzazione di tre poli territoriali per l’infanzia. A Matera è però anche emersa l’enorme difficoltà, tutta italiana, di co-progettare con chi la scuola la vive e la fa quotidianamente, come hanno evidenziato Raffaella Magnano e Federica Patti, ex assessora all’Istruzione del Comune di Torino, raccontando l’esperienza piemontese. Il PNRR potrebbe essere una grande occasione se le risorse servissero a rendere esigibile il diritto allo studio e alle pari opportunità e non solo a realizzare edifici.

Agli Stati Generali della Scuola è intervenuta anche la sottosegretaria Paola Frassinetti. Cosa pensa di questa prima fase di Governo del ministero dell’Istruzione e del Merito? 

La sottosegretaria ha affermato che la scuola italiana è tra le migliori scuole in Europa. Purtroppo i dati OCSE-Pisa dicono da anni tutt’altro. E così altri indicatori statistici europei. Credo evidente che debba ancora approfondire lo stato reale della scuola italiana, visitare le scuole delle aree metropolitane, delle aree interne, dei quartieri depressi. Forse potrà ascoltare le tante difficoltà che incontrano i dirigenti scolastici e i docenti, toccare con mano l’espulsione di migliaia di bambini, ogni anno, dal ciclo formativo. Credo che la nuova denominazione del Ministero sia sbagliata e fuorviante. Il merito è un concetto ambiguo, vale a seconda di dove lo si applichi. Vale certamente quando si parla di professionalità, di incarichi, di responsabilità degli adulti. Ma la scuola non è un campo di carriera. La scuola dovrebbe al contrario essere capace di includere tutti, come chiede la Costituzione. Anche coloro che a “quel” merito non possono arrivare per condizioni economiche, sociali e culturali che non hanno scelto, ma che sono toccate loro in sorte.

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