«Caffe, caramelle e sigarette, sono undici euro». Peccato che lo scontrino emesso è solo di un euro. Poi, alla richiesta di poter pagare con bancomat, la cassiera di un bar tabacchi in piazza Vittorio Emanuele II, gestito da cittadini cinesi, scuote la testa e risponde in modo piccato: «Contanti per favore, no carta». In un altro bar all'Esquilino, sempre gestito da orientali, ma dal lato opposto della piazza, arriva il momento di pagare un succo e un cornetto. «Sono tre e novanta», chiede il cassiere, che stoppa sul nascere il tentativo di saldare il conto con la carta: «No, contanti solo». Prende le monete e non emette nemmeno lo scontrino. Stesso copione anche in un parrucchiere di via Carlo Alberto: 10 euro la piega (un prezzo competitivo a fronte dei 20-30 euro che si pagano in altri coiffeur), ma niente scontrino. Spostandosi di quartiere lo scenario non cambia. In un parrucchiere cinese di via Val Melaina addirittura non si vede il registratore di cassa: la commessa infila i contanti direttamente in un cassetto della scrivania.
I dati
Questi esempi di acquisti, fatti a campione, dimostrano come in alcune di queste attività l'evasione fiscale sia all'ordine del giorno.
Le indagini
Da un'indagine della Procura di Firenze, è emerso come dietro normalissimi esercizi commerciali in realtà si nascondessero banche clandestine, dove venivano portate valigette piene di contanti da riciclare e trasferire sottobanco nel Paese del Dragone: lo scorso 15 marzo due cinesei sono finiti in carcere con l'accusa di aver gestito una di queste filiali che offriva ai connazionali servizi occulti di trasferimento di denaro in madrepatria dietro pagamento del 2,5% dell’importo. Lo stesso emerge anche nell'inchiesta della Procura di Roma, in cui il primo collaboratore di giustizia cinese in Italia ha spiegato che il denaro ricavato dallo spaccio di droghe sintetiche, come lo shaboo, «è trasferito su conti Alipay o WeChat e cambiato in moneta cinese, tramite negozianti che trattengono una piccola commissione». Il pusher “ pentito” ha precisato che lui stesso contattava «un uomo che frequenta piazza Vittorio (a Roma, ndr) e che utilizza un furgone bianco». Un sistema che rende l'idea di come alcuni cinesi sentano di vivere in una sorta di enclave in cui non valgono le regole italiane, a cominciare dal quelle fiscali. Lo dimostrano anche le intercettazioni che hanno permesso di sgominare una cellula romana di criminali orientali, dedita a narcotraffico e prostituzione. «Così potete risparmiare anche i soldi dei taxi stranieri», diceva uno degli indagati offrendo alle giovani squillo connazionali un passaggio in auto. Per loro, i taxi stranieri, sono quelli guidati da italiani con regolare licenza.
I controlli
La Guardia di Finanza è in prima linea nel contrasto alle varie forme di illegalità di cui si rende protagonista la comunità cinese (e non solo). Per esempio, lo scorso gennaio all'Esquilino sono state controllate 99 attività, 26 gestite da cinesi e 40 da bengalesi: 43 di queste sono state sanzionate perché non emettevano scontrino e c'erano 35 lavoratori in nero, di cui 3 con reddito di cittadinanza. Nello stesso mese, all'interno del centro commerciale Commercity (nei pressi della nuova Fiera di Roma), i finanzieri hanno controllato 198 attività commerciali, di cui 83 gestite da cinesi: 43, in totale, non rilasciavano ricevute fiscali e sono stati scoperti 6 lavoratori in nero.
Cambiando fronte, i militari della Gdf - tra gennaio e febbraio scorsi - hanno sequestrato nella Capitale 65 milioni di prodotti cinesi contraffatti o che violavano il made in Italy o il codice del consumo. Nello stesso periodo del 2022, i pezzi sequestrati ai cinesi sono stati 29 milioni. E anche negli aeroporti i controlli sono serrati: la Finanza, dal primo di gennaio, ha fermato 239 persone che trasportavano in Cina, in modo irregolare, un totale di 3 milioni di euro di valuta.
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