Il primo Mandela Day senza Mandela mentre il mondo è in guerra

Nelson Mandela
di Giulia Aubry
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Venerdì 18 Luglio 2014, 13:33 - Ultimo aggiornamento: 20 Luglio, 13:39
Non il mondo che aveva cercato di costruire. Non il giorno che avrebbe voluto. Quando nel 2009 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite stabil che il 18 luglio di ogni anno sarebbe stato il Nelson Mandela International Day, non poteva certo immaginare che il primo dopo la sua morte si sarebbe celebrato in un momento in cui l’odio tra “vicini” di casa, dal Medio Oriente all’Africa Centrale all’Europa Orientale, sarebbe apparso in tutta la sua assurda violenza su ogni pagina di giornale, schermo televisivo, sito internet.



Nato il 18 luglio 1918 a Mvezo e morto il 5 dicembre scorso a Johannesburg, Madiba - dal nome nel clan di appartenenza - avrebbe compiuto oggi 96 anni, 26 dei quali trascorsi nelle carceri di massima sicurezza sudafricane a causa della sua militanza nell’Umkhonto we Sizwe (Lancia dell’azione), ala armata dell’African National Congress.



Considerato un terrorista dal governo sudafricano responsabile dell’apartheid, una delle più terribili forme di segregazione razziale mai realizzatesi, Mandela aveva effettivamente partecipato ad atti anti-governativi incitando la popolazione nera a unirsi, mobilitarsi e lottare - “tra l’incudine delle azioni di massa e il martello della lotta armata”- per ottenere pari diritti civili.



Ma proprio questo percorso lo avrebbe profondamente cambiato. Il lungo travaglio interiore del prigioniero 466/64 nella sua minuscola cella del carcere di Robben Island, di fronte alle morti provocate in suo nome e a quelle subite dalla sua famiglia e dal proprio clan per la medesima ragione, ha fatto sì che l’uomo di armi, l’ideologo della lotta armata si trasformasse nel fervente sostenitore della nazione arcobaleno.



Un paese dove tutti possono vivere assieme poiché – come ricorda anche l’odierno doodle di google – “nessuno nasce odiando qualcun altro per il colore della pelle, il suo ambiente sociale o la sua religione”.



E il Mandela Day avrebbe dovuto ricordarci questo. Avrebbe dovuto testimoniare, nel tempo e anche dopo la sua morte, che è possibile cambiare le cose ed è possibile vivere vicini anche nella diversità.



Ma per farlo è necessario imparare a perdonarsi (pur con tutti i limiti del caso) e a vedersi l’un l’altro come esseri umani, prima che come appartenenti a un gruppo diverso. Mandela, insieme all’arcivescovo Desmond Tutu, ha cercato di farlo in quel percorso lungo e complesso che è stato scandito dagli atti della Commissione per la Verità e la Riconciliazione.



Un’istituzione nata allo scopo di raccogliere le testimonianze delle vittime e dei perpetratori dei crimini, commessi da entrambe le parti durante il regime, e richiedere e concedere (quando possibile) il perdono per azioni svolte durante l'apartheid. E, soprattutto, superare quest’ultima - non solo per legge – riconciliando realmente vittime e carnefici, oppressori ed oppressi.



Come ogni grande personaggio Mandela ha i suoi detrattori, i suoi critici. Ancora oggi il suo Sudafrica non può essere definito una vera nazione arcobaleno.



Come ogni uomo, Madiba ha commesso degli errori e ha lasciato che altri, anche tra i suoi cari o i suoi compagni di partito, li commettessero accanto a lui o in suo nome. Ma questo lo rende ancora più umano e insegna che chiunque può provare a cambiare, in meglio, il mondo senza dover essere necessariamente santo o perfetto.



Mentre il mondo brucia, le bombe cadono, i razzi vengono lanciati, gli aerei esplodono in volo e centinaia, migliaia di persone - la cui sola colpa è essere nate nel posto sbagliato o trovarcisi per puro caso – muoiono, celebrare il Mandela Day può sembrare un doloroso paradosso, ma forse non ce ne è mai stato tanto bisogno.



Per spiegare ancora una volta a quanti pensano che le armi siano l’unica soluzione possibile, che “essere liberi non significa solo spezzare le proprie catene. Significa vivere rispettando e valorizzando la libertà degli altri”.