Il dottor Giulio Bamonte ha 38 anni, è romano di Borgo Pio, e la sua professione di oculista lo ha portato a lavorare all'Universitair Ziekenhuis Brussel, vale a dire l'ospedale universitario della capitale belga. «Qui il 30 per cento dei pazienti sono islamici e sono persone straordinarie. Purtroppo però nei quartieri ad alta densità di musulmani si sono infiltrate le cellule di terroristi e questo è il vero, serio, problema. La popolazione di Bruxelles per questo è infuriata. Pensare che i due fratelli terroristi in passato furono anche seguiti in questo ospedale, uno fu visitato proprio nel reparto di oculistica».
Bamonte è responsabile della chirurgia della retina e martedì è stato chiamato a intervenire in aiuto di tutti coloro che erano stati feriti agli occhi. «Si è creato un clima di mobilitazione, come è normale di fronte a una emergenza di queste dimensioni. Ognuno di noi cercava notizie della propria famiglia, per fortuna mia moglie e mio figlio sono arrivati a casa salvi a mezzogiorno. Durante le pause tra un intervento e l'altro seguivi le news in tv, per capire. Ma gran parte del tempo è stato impegnato a curare i feriti. Tra di noi ci sono molti medici italiani».
Eppure a Bruxelles, prima dell'attentato di martedì, si viveva in un clima di attesa di qualcosa di grave, ma anche di rimozione del problema. «Guardi, qui in ospedale già prima degli attentati lavoravamo con la presenza dei soldati con i mitra. Dopo l'attentato di Parigi tutti sapevamo che questa città era a rischio. Ma cosa fai? Non puoi farti vincere dalla paura, devi andare avanti, fare il tuo lavoro, la tua vita normale. E devo dire la verità, quando è stato catturato Salah, tutti abbiamo tirato, in modo irrazionale, un sospiro di sollievo. Questa è una città complicata, dove i quartieri difficili sono centrali, non in periferia come in altre capitali europee. I cittadini di Bruxelles si lamentano, dicono che c'è stata una apertura eccessiva, troppa tolleranza. Tornare a Roma? Mi piacerebbe, perché mi manca la mia città. Ma non certo per paura, continuerò a fare il mio lavoro qui».
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