Lula, l’ex operaio amico di Chavez che non sfruttò l’onda dei Brics

di Loris Zanatta
4 Minuti di Lettura
Sabato 7 Aprile 2018, 00:07
Dalle stalle alle stelle. E ritorno. Tale parrebbe oggi la mesta parabola di Lula, l’operaio che fu amato presidente prima di diventare galeotto. Parabola che non è detto si chiuda oggi né così: con l’abominio della condanna, l’oltraggio della prigione. Il vittimismo, nei Paesi cattolici, può fare miracoli; mai scartare resurrezioni.

Cos’è successo a Lula? L’uomo che lasciò la presidenza otto anni fa in un tripudio di consensi spacca in due il Paese. Per i devoti è un santo e i santi non si processano; è la vittima sacrificale di un’oligarchia retrograda, lo scalpo più ambito della vendetta di classe. Può darsi, in parte. Ma qualcosa non torna in tale narrazione; suona a rabbiosa consolazione di chi rimane orfano di un simbolo e una speranza; di chi ai fatti preferisce la propria fede. Lula e il suo partito hanno governato a lungo e indisturbati; anzi: osannati. Anche da molti di coloro che oggi imprecano contro di loro. 

Dov’era la trinariciuta oligarchia in tutto quel tempo? Perché d’un tratto sognerebbe vendetta? Quando la politica cede il timone ai giudici non è mai buon segno: il Brasile non fa eccezione. Ma gridare oggi alla cospirazione dei tribunali quando ieri si inneggiava alla loro indipendenza, magari per giustificare il no all’estradizione in Italia di Battisti, suona fariseo. 

La verità è che il declino di Lula non è di oggi e ha cause serie e profonde. Prendiamo il suo partito: vent’anni fa, il PT dominava il Brasile più moderno, governava San Paolo e Porto Alegre, incarnava il sogno di spiccare una buona volta il salto verso il suo eterno destino manifesto: quello di un paese influente, moderno ma anche inclusivo. Questo promise Lula quando arrivò al governo e ripose il vecchio armamentario classista e pauperista della sua formazione socialista e cattolica. Per questo la tremenda “oligarchia” si spellava le mani per lui. Oggi il PT ha perso il governo in gran parte del Sud avanzato e istruito ed ha le sue roccaforti nel Nordest arretrato. E’ un caso? No di certo: il PT vi ha ereditato le reti clientelari un tempo gestite dalle grandi famiglie locali; distribuisce spesa pubblica. Niente di male: c’era bisogno urgente di piani sociali. Ma la vocazione assistenzialista s’è unita alla brusca frenata riformista, col che la grande modernizzazione promessa s’è arrestata. 

Che ne è stato, intanto, del Brasile? Lula godette di un’impareggiabile congiuntura economica e il paese ne beneficiò. Ma fece un grave errore: invece di profittarne per fare dolorose ma necessarie riforme strutturali, preferì non toccare il suo elettorato. Risultato: al primo stormir di fronde, al mutare della congiuntura economica, il Brasile è precipitato nella più profonda recessione economica della sua storia. Il prezzo politico l’ha pagato Dilma Rousseff, quello sociale tutti i brasiliani. 

Su tutto ciò è infine piovuto come uno sciame sismico un’interminabile sequela di scandali: tale è il giro di denaro del sistema corruttivo scoperchiato da far impallidire d’invidia quelli nostrani. Né Lula né il PT sono gli unici responsabili: nessun partito ne esce indenne, ancor meno ne esce pulito il mondo economico. E chissà se davvero il processo in cui Lula è stato condannato si fonda su solide prove: qualche dubbio ce l’ho. Ma la sua responsabilità politica è talmente grande che nessun grido al complotto potrà coprirla. 

Tirando le somme, Lula è il maggior responsabile del suo declino. Alla cui origine c’è un’ambiguità di fondo, a dirla con un eufemismo; una sorta di disonestà intellettuale, ad essere schietti. Quel che oggi appare chiaro, infatti, è che Lula non credette mai del tutto alla svolta riformista annunciata arrivando al potere, che tenne sempre i piedi in due scarpe: la corruzione del suo partito non era tale se giovava alla nobile causa dei poveri; lo stato di diritto non contava se a violarlo erano i suoi amici e alleati Hugo Chávez o Fidel Castro; la magistratura era il suo orgoglio finché gli dava ragione.

Ma in democrazia, il fine non giustifica i mezzi. La sua supponenza, la pretesa superiorità morale del suo partito in quanto partito del “popolo”, hanno finito per svelare l’arcano: sotto la superficiale e tardiva adesione alla democrazia rappresentativa, scalpitava la pulsione redentiva del vecchio Lula antiliberale. È lui quello che oggi medita vendetta; è lui che un giorno potrebbe risorgere.
© RIPRODUZIONE RISERVATA