L’Iran è un paese diviso, in cui le contraddizioni sono evidenti. Nei quartieri alti e borghesi, a ridosso delle montagne, l’affluenza è stata maggiore per sostenere i riformatori della Lista della speranza scandendo lo slogan “Tranquillità e crescita economica”. Una lista che lascia perplessi visto che vi si ritrovano i nomi di tre deputati conservatori. Evidentemente non c’era altra scelta: di riformisti veri ne sono rimasti pochi: all’ex presidente riformatore Khatami è vietato rilasciare dichiarazioni e restano agli arresti domiciliari i leader del movimento verde d’opposizione delle presidenziali 2009. Se nella Teheran settentrionale i ricchi hanno ancora speranza e sono andati a votare numerosi, nei quartieri meridionali il ceto basso è meno entusiasta e, di pari passo, l’affluenza ai seggi sembra essere stata inferiore. Di speranza ne resta poca, forse anche perché in questi tre decenni molti ragazzi (e fanciulle) di umile origine hanno avuto accesso all’università ma non per questo a un lavoro: capita spesso di prendere posto sul taxi e sentirsi dire dal conducente che è laureato in Ingegneria ma non ha trovato altro impiego.
L’Iran è un paese complicato. Anche in politica. Per concludere l’accordo sul nucleare avevano fatto fronte comune tre fazioni: quella del presidente moderato Rohani, gli uomini del leader supremo Khamenei, e i generali dei pasdaran. Firmato l’accordo di Vienna a luglio e tolte le sanzioni a gennaio, quella fragile alleanza si è spaccata perché i pasdaran temono che l’apertura alle imprese occidentali voluta dal presidente Rohani possa minacciare i loro numerosi interessi economici. Per questo oggi Rohani viene ostacolato dai pasdaran e, con loro, dal leader supremo che nelle milizie trova lo zoccolo duro del proprio potere. Elezioni importanti, quelle di venerdì, perché se il decimo parlamento della Repubblica islamica non sarà ostile al presidente moderato Rohani, il governo potrà operare senza troppi impedimenti, mettendo in atto le riforme necessarie. Un parlamento a lui avverso gli metterebbe i bastoni tra le ruote. Come accaduto a luglio, quando i deputati conservatori hanno convocato il ministro degli Esteri Zarif chiedendogli di rendere conto di quella passeggiata con il segretario di Stato americano Kerry durante i colloqui di Vienna sul nucleare. In queste elezioni rilevante è la scelta degli 88 membri dell’Assemblea degli Esperti incaricata di nominare il prossimo leader supremo in sostituzione dell’Ayatollah Ali Khamenei che di anni ne ha settantasei e non gode di ottima salute. A Teheran sembra avere avuto la meglio la lista di Rohani e Rafsanjani, l’ex presidente (1989-97) attorno a cui si sono coagulate le speranze dei riformatori ma che è visto male dai falchi perché non ha mai condannato pubblicamente il movimento verde d’opposizione. Rafsanjani non aveva potuto candidarsi alle ultime presidenziali perché troppo avanti con gli anni (ne ha 80), due dei suoi figli sono finiti in carcere ma non si è arreso.
Degli ottocento candidati solo 181 sono stati autorizzati dal Consiglio dei Guardiani a partecipare alla corsa elettorale. Fuori gioco Hassan Khomeini, nipote del fondatore della Repubblica islamica, e pure tutte le donne. Tra i candidati che hanno passato la selezione c’è anche il venticinquenne Maysam Doost-Mohammadi, candidato nella città santa di Qum. Segno che il Consiglio dei Guardiani ha tentato di avvicinare il clero sciita all’elettorato più giovane. Tutti gli altri candidati hanno il triplo dei suoi anni. Dopotutto anche quella iraniana è una gerontocrazia che non rinuncia ai suoi privilegi.
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