Il voto a Budapest/Il messaggio che arriva dall’Est per l’Europa

di Marco Gervasoni
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Lunedì 9 Aprile 2018, 01:02
È la prima volta che vediamo un regime accusato di essere autoritario produrre file chilometriche ai seggi, come accaduto ieri in Ungheria. In sistemi del genere, infatti, di solito la partecipazione è spenta, la massa apatica e disillusa, mentre invece l’affluenza di ieri sembra sia stata le più alte nella storia dell’Ungheria democratica. Se poi qualcuno vuole definire, come hanno fatto opinionisti assai stimati sulla stampa internazionale di questi giorni, quella di Orban una dittatura, dovremmo ricordare che, le parole avendo un senso, non è che nelle dittature si vota poco: non si vota affatto. 

Il premier ungherese a leggere i primi dati avrebbe aumentato i consensi. E avrebbe anche centrato l’obiettivo di vedere confermati i due terzi dei suoi deputati. Certo il sistema Orban è discutibile per più versi: una legge elettorale che fornisce un premio di maggioranza abnorme al primo partito (il suo), un controllo pachidermico dei media, statali e privati, un sistema economico fondato su quello che gli americani chiamano «crony capitalism», che rasenta a tratti un «socialismo di Stato». 
E, da ultimo, le minacce all’opposizione e i toni antisemiti, se non in Orban stesso, in figure del suo partito, in particolare contro il miliardario George Soros, che pure è criticabile per molte ragioni.

Una radicalità che aveva l’obiettivo di mobilitare i suoi elettori ma che sembrerebbe soprattutto aver irritato molti oppositori. Tra i quali non spiccherebbero solo liberali e sinistre, anzi. 
A provare a contrastare Orban era stato il secondo partito del Paese, l’ultra-nazionalista Jobbik, ora spostatosi al centro, ma che comunque ritiene Orban troppo morbido sull’immigrazione. Sarà interessante vedere adesso quali saranno le mosse del premier di fronte all’esito positivo delle urne. Potrebbe reagire insistendo sui toni apocalittici degli ultimi anni e sfruttare il potere del suo ormai partito-Stato per riconquistare terreno. O potrebbe invece calibrare il suo discorso e magari aprire a proposte, se non ad elementi dell’opposizione di centro.

Come ci insegnano le biografe su di lui, Orban è abile, pragmatico e cinico, tutt’altro che un invasato nazionalista. Il che potrebbe condurlo a posizioni più costruttive sulla condivisione dei rifugiati che all’Italia non dovrebbero dispiacere.
In ogni caso Orban, uno dei leader più plastici - e più odiati - della Ue, ci parla di noi per almeno tre ragioni. Se l’Ungheria rappresenta un caso di crisi della democrazia rappresentativa, fenomeno diffuso in tutti i paesi, Orban è un tentativo di superamento di questa crisi: un esempio non certo auspicabile, ma che potrebbe riprodursi anche in democrazie ben più consolidate. 

La seconda ragione è che Orban costituisce una sfida culturale e politica ad un’Europa burocratizzata che, inutile girarci intorno, appare bloccata e asfittica. Ma egli non è euroscettico, come non lo sono gli ungheresi, anche suoi elettori e, invece di una exit del suo paese, propone una riforma della Ue. Che può dispiacere, ma che non si può delegittimare accusandola di voler sfasciare l’Europa.

La terza ragione per la quale Orban ci interpella sta nel suo consenso, indipendentemente da quello che ci diranno i risultati definitivi: al netto di un sistema istituzionale che discrimina le opposizioni e al quasi monopolio dei media, Orban ha intuito che una leadership politica oggi deve coniugare la crescita economica con la tutela del senso di appartenenza culturale e nazionale - un compito che invece i leader «liberali» faticano a svolgere, e pensano che la crescita del Pil e dei consumi risolverà tutto. 
Morale: se non vogliamo che in un futuro non troppo lontano l’Europa si riempia di Orban, magari davvero dittatoriali, bisogna che le classi politiche e le élite si mettano sul serio, e non solo a parole, all’ascolto dei popoli. 




 
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