Diritti e doveri/ L’Europa apra un tavolo sulle aziende delocalizzate

di Oscar Giannino
4 Minuti di Lettura
Domenica 10 Giugno 2018, 00:16
Le delocalizzazioni d’impresa vanno fermate, ha detto il ministro dello sviluppo economico Luigi Di Maio. “Ci sono tante crisi aziendali e c’è tanta sofferenza di tante persone che rischiano di perdere il posto di lavoro. Non sempre queste crisi sono responsabilità delle aziende. Ci sono aziende che stanno delocalizzando e vanno fermate, specialmente se hanno preso fondi dallo Stato. E ci sono anche aziende che sono in crisi perché vantano crediti nei confronti della Pubblica amministrazione che non paga”.

Sembrano frasi di buon senso. L’empatia da mostrare a chi rischia il lavoro. E anche l’ammissione che molto resta da fare per le imprese fornitrici della pubblica amministrazione. Ma l’affermazione delicata di Di Maio è un’altra. Che cosa vuol dire di preciso, “le delocalizzazioni vanno fermate?”. Su questo occorre essere chiari. Per almeno tre motivi. Perché non partiamo da zero. Negli anni di crisi alle nostre spalle dei limiti sono stati già posti, nel nostro ordinamento. Alle leggi, si sono aggiunti poi casi di crisi aziendale che, ancora recentemente, hanno visto l’ex ministro Calenda battersi con grande energia perché le richieste delocalizzazioni non si chiudessero con chiusura degli impianti e licenziamenti, ma con continuità assicurata magari da altre proprietà e con nuove lavorazioni. 

Infine, la chiarezza s’impone per un’altra ragione essenziale. Viviamo settimane delicate. Anche ieri è tornato a levare la voce il governatore della Banca d’Italia, Ignazio visco, invitando la politica a misurare le parole sul rischio sovrano dell’Italia. Mentre il presidente di Confindustria Boccia invitava a farla finita con gli annunci di campagna elettorale. Diciamolo: non è proprio il momento di pronunciare frasi generiche contro la libertà d’impresa, che non siano cioè precisamente circostanziate a ipotesi concrete. Altrimenti, il segnale aggiuntivo che si darà agli investitori internazionali e a chi pensa di aprire in Italia sarà di prender tempo, rinviando la decisione a fronte di un rischio incerto. 

Abbiamo bisogno dell’esatto contrario. Molti grandi Paesi hanno messo in atto vere e proprie strategie nazionali per incentivare il reshoring, cioè il ritorno indietro delle proprie aziende che nei primi anni della globalizzazione avevano investito pesantemente in Paesi allora a bassissimo costo del lavoro e basse tasse. Ma quando, come in Italia, si parte da una condizione di oneri fiscali e amministrativi ancora tanto gravosi, la prima attività in cui si dovrebbe concentrare il governo dovrebbe essere attirare nuove imprese garantendo un ecoambiente ordinamentale più favorevole. Su questo, c’è ancora molto da fare. Credere di sostituirvi una visione fatta di assistenzialismo a chi perde il lavoro non crea lavoro aggiuntivo.

Detto questo, già a fine 2013 è stato disposto che le imprese italiane ed estere operanti in Italia che beneficino di contributi pubblici in conto capitale, qualora delocalizzino fuori dalla Ue entro tre anni riducendo di almeno il 50% i dipendenti in Italia, debbano restituire i contributi ricevuti. Ma restano due problemi. Gli incentivi in Italia sono di moltissimi tipi: dalla batteria di quelli agli investimenti, a quelli per l’internazionalizzazione. Se Di Maio si riferisce ad alcuni di questi o a tutti, sarà bene lo chiarisca al più presto. In caso contrario, l’effetto freno agli investimenti si manifesterà inevitabilmente. 

E c’è poi il problema sollevato da Calenda sul caso Embraco: quello delle delocalizzazioni non extra Ue, ma al suo interno, verso i membri orientali dell’Unione. Il caso Embraco ha visto un braccio di ferro con un’azienda internazionale decisa a realizzare quanto da tempo aveva preannunciato, chiudere la sua produzione a ormai basso valore aggiunto in Piemonte e spostarla in Slovacchia. Calenda ha portato il Mise e Invitalia a selezionare due investitori alternativi per garantire i residui 430 occupati. Con 200 milioni deliberati dal Cipe da destinare a un nuovo strumento, che si chiama proprio Fondo per contrastare le delocalizzazioni. Ma come si è visto nel caso Embraco, in ambito europeo non può vietare le delocalizzazioni all’interno dell’Unione, come ieri è sembrato invece annunciare Di Maio. La libertà d’impresa nella Ue s’incardina nelle quattro libertà fondamentali dell’Unione: quelle cha riguardano le persone, i beni, i servizi e i capitali. 

E’ di questo, che parlava ieri Di Maio? Se è così, è più appropriato dirlo in maniera diversa. Bisognerebbe sollevare la questione in sede europea. Proponendo una cornice comune che finirebbe per investire proprio la libertà nazionale di offrire ordinamenti fiscali e amministrativi più favorevoli a investimenti, lavoro e produzione. Non passerebbe mai una proposta simile: a dire no sarebbero per primi i paesi est europei del blocco di Visegrad, a cui il nuovo governo italiano sembra guardare con molta speranza. 

Torniamo allora al punto iniziale. E’ del tutto legittimo che si voglia fare di più e meglio. Ciò di cui non c’è invece bisogno è apparire unilateralmente decisi a nuovi vincoli alla libertà d’impresa che nell’ordinamento europeo oggi non sono consentiti. E che sarebbero un autogol per l’Italia. 

© RIPRODUZIONE RISERVATA