Le accuse a Tornatore e la paranoia del populismo digitale

di Gennaro Carillo
4 Minuti di Lettura
Domenica 5 Novembre 2017, 00:05
Uno spettro si aggira nello spazio pubblico. Lo spettro della denuncia e della confessione. Cresce un’ansia globale di certificazione della nudità del re – di chiunque rivesta un ruolo di potere e ne abusi – e al tempo stesso di purificazione. Poiché nessuno crede più al corpo mistico del re, al re come sostanza immateriale e immortale, tutta l’attenzione si sposta sul suo corpo mortale, sul re fatto di sola carne, sulla sua fregola direttamente proporzionale al potere che personifica.

Ma che il re (il premier, il regista, il produttore, l’attore attempato) fosse nudo, o sempre pronto a denudarsi, lo si sapeva da un po’ di tempo. Lo sapeva benissimo, per esempio, già la mitologia classica, dove gli stupri degli dei e degli eroi incontinenti si sprecano, al punto da indurre Platone a bandire certe loro storie poco edificanti dalla polis giusta. Non è da meno Balzac, tra i moderni, quando racconta di un finanziere straricco e spregiudicato, ma vecchio e ridicolo, che usa del suo potere d’acquisto per comprare a un prezzo salatissimo le grazie di una bella ex cocotte. 

<HS9>La novità dirompente di questi giorni sta piuttosto nel grande lavacro collettivo al quale si sottopone il nostro Occidente secolarizzato e demoralizzato. È difficile dire cosa spinga a denunciare o ad ammettere una molestia a distanza di decenni, quando il rapporto di potere che l’ha determinata è venuto meno o quando si è fuori dall’ambiente, dal bacino di coltura entro il quale è maturata. È difficile capirlo sia quando chi denuncia è espressione a sua volta di un potere, di un contropotere – di fascinazione, seduzione, ricatto – sia quando la denunciante è davvero una piccola fiammiferaia pressoché anonima, facile preda, almeno sulla carta, dell’orco di turno. 

<HS9>Di per sé, la presa di parola è un gesto di emancipazione. Per l’uomo, animale narrante, raccontarsi non è solo naturale ma vuol dire sgravarsi di un peso, liberarsi. Magari facendosi forti dei racconti degli altri. Delle altre. Di qui la reazione a catena o l’effetto domino che segue alla prima dichiarazione, al primo velo che cade. Se le malefatte degli sporcaccioni sono state coperte per troppo tempo da un silenzio che si è alimentato di paura, o da un’omertà complice (come nel caso di Quentin Tarantino), la loro denunzia pubblica può apparire ed essere salutata come un contrappasso meritato e soprattutto efficace, ben più efficace delle conseguenze giudiziarie (lente e soprattutto ipotetiche). 
Eppure, accanto a questo valore di emancipazione c’è qualcos’altro. Qualcosa di più inquietante. Quella della purezza, e della purificazione, è una delle più tipiche «ossessioni americane», per citare l’ultimo libro di Massimo Teodori, una «storia del lato oscuro degli Stati Uniti» (Marsilio, 2017). È come se periodicamente, per riconsolidarsi, il sistema di valori americano avesse bisogno di un agente patogeno, di un nemico da combattere. Di un nemico, soprattutto interno, da espellere dal corpo politico, magari celebrando un rito di degradazione in piena regola. La più bella trilogia di Philip Roth parla, appunto, di questo: delle vite distrutte di comunisti americani – un ossimoro – o di professori neri di letteratura greca paradossalmente accusati di razzismo in tempo di «dittatura dell’eufemismo» (il politicamente corretto). Vite devastate in nome di un ideale di purezza al quale sacrificare qualunque altro valore, ivi compresi i princìpi dello Stato di diritto. Devastate a seguito di processi sommari, senza garanzie, perché dettati dall’urgenza di mondare un corpo sociale corrotto. Mi sembra un sinistro punto di contatto con l’escalation attuale: perché il corpo corrotto si sani, occorre eliminare chi incarni, prendendolo su di sé, tutto il male. E occorre farlo senza perdere tempo in distinzioni, alla maniera di Saint-Just, senza graduare tra colpe lievi e gravi. Ovviamente è un’illusione, per di più autoassolutoria. 
<HS9>Questo ragionamento non si limita all’America, alle matrici religiose della sua storia civile. Le parole d’ordine, specie grazie all’ambiente virtuale nel quale si svolge il discorso pubblico globale, sono ovunque le stesse: siamo tutti americani, dunque tutti puritani. Con un aggravamento, rispetto al passato: in tempo di post-verità, una notizia falsa, o presentata in modo fuorviante, può avere una propagazione virale in pochi secondi. E richiede una fatica immane per essere smentita. Anche perché, per il populismo digitale, è sempre «buona la prima» e il resto, la prova contraria, non conta.
<HS9>Al di là della solidarietà piena con le vittime reali degli abusi, quest’epidemia di paranoia non è affatto una buona notizia. 
© RIPRODUZIONE RISERVATA