Contro i teppisti serve la forza senza fanfare

di Mario Ajello
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Sabato 2 Maggio 2015, 23:53 - Ultimo aggiornamento: 3 Maggio, 00:11
Milano violenta. Non come nel 1977, ma quasi. Il nichilismo è identico, le strade della devastazione sono quelle della celebre foto del ragazzo che sparò con due mani a via De Amicis, le armi da fuoco ancora non ci sono ma il salto di qualità, nel rito archeologico della guerriglia urbana adattato all’età dell’Expo, è rappresentato da un ritorno sinistro. Quello delle bottiglie molotov. Non si vedevano da anni, nelle adunate antagoniste, piene semmai di bombe carta, e ora invece rieccole.

Non un bel segnale. E l’escalation della furia potrebbe trovare il 17 giugno, nella visita all’Expo di Angela Merkel, presunto simbolo dello strapotere del turbocapitalismo contro l’“Europa dei popoli” (ma se minimamente sapessero chi fosse stato Giuseppe Mazzini non potrebbero usare questa espressione nobile e non meritevole di finire in mezzo ai bastoni e ai caschi black bloc), una nuova occasione di sfogo distruttivo. La polizia ha fatto ciò che doveva. Ha cercato di limitare l’area delle devastazioni. E ha evitato che ci scappasse il morto (sarebbe stata la fine dell’Expo oltre che una vita sprecata e una tragedia nazionale). Anche grazie a questo Milano ha retto, ma pagando costi altissimi sia in termini di civiltà violata e di vivibilità negata ai suoi cittadini e ai turisti che cominciano ad arrivare in massa, sia sul terreno dell’immagine di una metropoli e di un Paese che nel momento in cui provano a fare un passo nel futuro si sentono ricacciati indietro nel delirio ideologico di altre stagioni. Nelle quali esistevano i cattivi maestri così come ora e si cimentano nella ricerca impossibile di motivazioni culturali e generazionali (lo spaesamento dei ragazzi precari e No Future, No Global, No Logo e No Tav) che starebbero alla base di questo scoppio di odio devastante.



Sociologismo d’accatto? No, grazie. Il carattere arcaico di queste violenze, oltretutto, rende antichi questi ragazzi i quali contestano un’Expo che dovrebbe andargli a genio se fossero davvero interessati al mondialismo solidale e non alla violenza fine a se stessa. Visto che Milano 2015 è il trionfo non delle multinazionali interessate ad affamare i popoli ma della cooperazione alimentare tra i Paesi più forti e quelli più deboli, per ridurre la fame nel mondo.



Impostazione perfino eccessiva, nel suo essere politicamente corretta, e nel negare per esempio che lo sviluppo degli Ogm risolverebbe tanti problemi, in un quadro di responsabilità e di controllo, nelle aree periferiche e affamate della terra. Ma la violenza prescinde da ogni interesse verso ogni tipo di contenuto dialettico e di vera riflessione politica e intellettuale.



La risposta della città di Milano, anche ieri mattina, all’indomani dei riots, è stata quella di un civismo assoluto. I cittadini che ripuliscono e riaggiustano le loro contrade vandalizzate sono un segno di Italia che c’è. Rappresentano anticorpi democratici, che esistono a Milano come altrove. Con la differenza, purtroppo, che a Roma, solcata da uno o più cortei al giorno e teatro quasi settimanalmente di violenze più o meno politiche sono meno eclatanti scene come queste dei milanesi che "rammendano" (copyright Renzo Piano, archistar e senatore a vita) la propria città perché nella Capitale è sopraggiunta una certa abitudine, ma non rassegnazione, al subire violenza.



E qui il problema di come regolare l'eccesso di cortei e proteste a Roma viene rilanciato dai fatti di Milano, dove ci sono state in questi anni meno occasioni per violenze di piazza di quante ne abbia dovuto sopportare l’Urbe per il ruolo di capitale.



L’ultimo aspetto da considerare è quello del legame tra l’inaugurazione dell’Expo nella periferia milanese e la contemporanea devastazione No Expo al centro di Milano. Si sta dicendo in queste ore che questi due luoghi geo-politici fossero lontani, ieri, e impermeabili l’uno rispetto all’altro. Ma così non è. Occorre evitare che l’eccesso di retorica sulla grandezza italiana ai tempi dell’Expo, tutta ancora da verificare anche se l’evento è partito bene e in termini di Pil e di rango internazionale il nostro Paese ha solo da guadagnare, possa ancora di più incrudelire gli animi di chi inspiegabilmente odia e detesta questa manifestazione e tutto ciò che essa rappresenta.



Con la sobrietà e con la serietà, da parte della politica e del mondo produttivo che crede in questa chance, si contrasta meglio la demagogia di chi vuole rompere tutto.



Anche modificare il testo di Fratelli d’Italia nella cerimonia di apertura («Siam pronti alla vita» al posto di «siam pronti alla morte», così ha cantato il coro) è apparso un surplus di retorica di cui forse si poteva fare a meno. Le parole dell’inno sono le parole dell’inno. Ci abbiamo messo tanto ad assumerle e con tanti sforzi (quelli della presidenza Ciampi continuati con la presidenza Napolitano nel cinquantesimo dell’Unità d’talia) sembravano finalmente entrate nella lingua della nazione. Cambiarle ora è un colpo mediatico, forse poco vantaggioso in un Paese che ha continuamente bisogno di conferme e di certezze. Oltretutto, Fratelli d'Italia è un canto di speranza.



Abbiamo appena celebrato la lotta di Liberazione dove, esattamente come nel Risorgimento, si è morti per la libertà e il valore pedagogico di quelle morti resta per quello che è e contiene l’idea senza tempo della morte in nome del futuro. Che non dev’essere per forza, anzi si spera non lo sia mai più, un sacrificio con le armi in pugno, come nel testo di Goffredo Mameli. Le uniche armi in circolazione sono quelle dei black bloc. L’Italia migliore è quella capace di contrastare con durezza i criminali e di non eccedere nell’autoglorificazione di se stessa, suonando fanfare anzitempo.