"Le guerre per la lingua": ecco perché non bisogna piegare l'italiano alle ideologie

Il linguista Edoardo Lombardi Vallauri spiega nel suo saggio (che esce il 16 aprile) perché la schwa è un’eresia

Giorgio Vasari, Sei poeti toscani (da destra: Cavalcanti, Dante, Boccaccio, Petrarca, Cino da Pistoia e Guittone d'Arezzo), pittura a olio, 1544, conservata presso il Minneapolis Institute of Art, Minneapolis
di Marina Valensise
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Domenica 14 Aprile 2024, 06:55

Abituato a prendere in giro chi per darsi un tono parla di “step per realizzare la mission”, disquisisce di “mànagement” alla vaccinara, anche il più oltranzista difensore dell’italiano leggerà questo saggio con sollievo (Edoardo Vallauri, Le guerre per la lingua, Einaudi, dal 16 in libreria). Professore di linguistica a Roma Tre, l’autore, oltre ad studiare i meccanismi che permettono a una lingua di funzionare (grammatica, morfologia, sintassi, fonetica, vincoli di economia del locutore, cioè fare il minimo sforzo per la massima chiarezza) è un osservatore dei costumi, dotato di ironia. 


I FILTRI


Per cominciare, dedica il libro “A Deb, mia sostegna”, lasciando intuire da che parte sta. Subito dopo avverte: le guerre per il controllo della lingua ci sono sempre state, perché sin dai tempi dell’assolutismo e del totalitarismo le parole e il loro significato influiscono sui modi di pensare.

Solo che oggi le guerre sul linguaggio si combattano in un modo nuovo. Chiunque, grazie ai social, può far rimbalzare il suo modo di usare le parole senza preoccuparsi di propalare cretinate. Il fatto è che è saltato il Filtro della Costosità: diffondere un’idea un tempo costava soldi e fatica, bisognava sostenerla e con argomenti fondati, per evitare danni e discredito. Oggi invece chiunque spari una bufala a costo zero non rischia assolutamente niente, salvo produrre confusione e cacofonia delirante. Così per esempio, combattere il dilagare degli anglismi, per difendere la purezza sovranista dell’italiano, è una cretinata: intanto perché come spiega il linguista su 260 mila parole del vocabolario italiano, le inglesi sono circa 6000; e poi perché la frequenza di locuzioni inglesi prese in prestito nel linguaggio istituzionali (come jobs act, question time, spending review) non altera né la sintassi né la morfologia dell’italiano, ma contribuisce solo ad arricchirne il lessico con un gioco di scambi e di calchi. Dall’inglese scan viene scannerizzare, da click cliccare, il meeting dilaga, ma nessuno dirà mai “ci dobbiamo meet”, anche se “realizzare” dall’inglese realise, voce peraltro neolatina, è ormai d’uso corrente nel senso di “rendersi conto” e spoilerare nella sua concisione imperversa, al posto di «rovinare la fruizione di una storia rivelandone una parte in anticipo».

GLI OLTRANZISTI IN AGGUATO


Sempre in chiave di moderazione, il professore affronta anche altri calchi più irritanti per gli oltranzisti: attitudine non è più la dota innate verso la musica o la poesia, ma un semplice atteggiamento. Confidente non rinvia più alla nutrice dei drammi antichi o all’informatore di polizia, ma sostituisce l’aggettivo fiducioso. Consistente non significa dotato di spessore, bensì coerente, con un’ipotesi, un progetto... La prospettiva del professore però resta chiara: meglio la tolleranza che la censura. Volete sentirvi à la page, volete attingere al prestigio di una lingua da angiporti che nella sua barbara semplicità ha conquistato il mondo? Usate pure gli anglismi come vi pare e piace, spiega ai lettori, tanto non minano le strutture dell’italiano. Anche se non rinuncia a bollare come «ingenui e culturalmente succubi» quelli che abusano di step, stake holders, mission e performance. E accusa chi organizza dei “webinar sulla smart resilience” non di usare male la lingua, ma usare la testa da parvenu intellettuale.

CONTRO IL SESSISMO


Il tono si fa più intransigente in tema di genere e di battaglie contro il sessismo. Tolleranza zero per la schwa tanto amata da Michela Murgia & friends, perché spiega il prof. in italiano il maschile resta il genere morfologico non marcato. E se la diffidenza verso termini come avvocata, ministra, assessora, membra del cda, è indice di un attaccamento a vecchie abitudini, resta il fatto che quando Giorgia Meloni si fa chiamare il Presidente del Consiglio, e Beatrice Venezi e Serena Sileone ci tengono ad essere chiamate direttore d’orchestra e direttore dell’Istituto Bruno Leone, hanno ragione da vendere. Non si può sostenere che le donne debbano scegliere liberamente il proprio destino e poi pretendere che non siano neanche libere di decidere il loro appellativo professionale. 

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