Caso Eni, a giudizio due pm. «Nascosero le prove favorevoli agli imputati»

De Pasquale e Spadaro accusati a Brescia di «rifiuto di atti d’ufficio» nell’inchiesta

Caso Eni, a giudizio due pm. «Nascosero le prove favorevoli agli imputati»
di Claudia Guasco
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Giovedì 19 Gennaio 2023, 00:45 - Ultimo aggiornamento: 25 Febbraio, 18:08

 L’accusa è «rifiuto d’atto d’ufficio». In sostanza, nel 2021 non avrebbero depositato prove ritenute potenzialmente favorevoli agli imputati del processo per corruzione internazionale Eni-Nigeria, conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati. Il procuratore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale e il pm, poi passato alla procura europea, Sergio Spadaro sono stati rinviati a giudizio a Brescia dal gup Christian Colombo, secondo il quale i due magistrati non avrebbero messo a disposizione delle difese prove segnalate loro dal collega Paolo Storari sulla non attendibilità dell’imputato (e anche accusatore) di Eni Vincenzo Armanna.

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IL PROCESSO
La vicenda è relativa alle prove potenzialmente favorevoli alla difesa non depositate al processo sulla presunta maxi tangente da 1 miliardo e 92 milioni che sarebbe stata versata ai politici nigeriani per l’ottenimento del blocco petrolifero per il giacimento Opl245. Il processo si è chiuso con l’assoluzione di tutti gli imputati, tra i quali l’attuale amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, e l’ex numero uno, Paolo Scaroni, poiché mancano «prove certe e affidabili dell’esistenza dell’accordo corruttivo contestato», scrivono i giudici nelle motivazioni della sentenza. Sottolineando anche l’operato di De Pasquale e Spadaro: «Risulta incomprensibile la scelta del pubblico ministero di non depositare tra gli atti del procedimento un documento che, portando alla luce l’uso strumentale che Vincenzo Armanna intendeva fare delle proprie dichiarazioni e dell’auspicata conseguente attivazione dell’autorità inquirente, reca straordinari elementi a favore degli imputati». Armanna, ex manager di Eni licenziato dalla compagnia e diventato un accusatore della multinazionale, secondo i giudici aveva l’intento «di ricattare i vertici Eni, lasciando chiaramente intendere a Piero Amara che le sue dichiarazioni accusatorie avrebbero potuto essere modulate da eventuali accordi, facendo un chiaro riferimento a Descalzi».


OMISSIONI
Ieri i pubblici ministeri di Brescia, nel corso dell’udienza, hanno rimarcato l’esistenza di elementi sufficienti per ritenere che i loro colleghi milanesi, tra febbraio e marzo 2021, abbiano omesso «volontariamente» di depositare alle difese e ai giudici del caso Nigeria «informazioni, prima verbali e poi documentali» segnalate loro dal collega Paolo Storari (assolto anche in appello).

Storari ha spiegato di aver inviato a De Pasquale e Spadaro, e in copia all’aggiunto Laura Pedio e all’ex procuratore Francesco Greco, materiale che avrebbe dimostrato come Armanna, valorizzato dall’accusa nel dibattimento sul giacimento nigeriano, avesse costruito prove false per infangare i vertici del gruppo e per ricattarli. Materiale che i due pubblici ministeri non hanno messo a disposizione delle difese e del Tribunale durante il processo. Le omissioni riguardano una serie di chat alterate dall’ex dirigente e messaggi «depurati» per nascondere un presunto versamento di 50 mila dollari all’ex poliziotto nigeriano Isaac Eke, anche lui teste dell’accusa. Secondo gli atti trasmessi da Storari, Eke non si sarebbe presentato in aula ritenendo il «compenso» insufficiente, mandando al suo posto un amico. E ancora, conversazioni su Whatsapp e la videoregistrazione di un incontro in cui Armanna ha espresso propositi ritorsivi nei confronti dei vertici dell’Eni: parlando con l’avvocato Piero Amara due giorni prima di presentarsi in Procura con le prime accuse ai manager del gruppo petrolifero, si diceva pronto a coprire i manager da «una valanga di...». Inoltre avrebbe istruito a dovere Mattew Tonlagha, amministratore della società nigeriana Fenog, al quale avrebbe suggerito le risposte da fornire agli inquirenti. Tutti elementi acquisiti nel corso dell’inchiesta sul cosiddetto «falso complotto», del quale Paolo Storari era co-assegnatario.


LA DIFESA
Le due toghe hanno sempre professato di avere agito in modo corretto: «Abbiamo operato nel pieno rispetto dei doveri d’ufficio», hanno ribadito nell’udienza dello scorso 2 novembre. Sostenendo di essere rimasti nei margini della «discrezionalità» concessa a chi indaga e precisando che, considerate le modalità di trasmissione, avrebbero avuto validi motivi per non depositare i documenti condivisi dal pm Paolo Storari. Inoltre avrebbero informato della questione l’allora procuratore Francesco Greco e la vice Laura Pedio, che hanno condiviso la loro decisione. Una tesi che non ha convinto il gup di Brescia: la prima udienza davanti ai giudici della Prima sezione si terrà il 16 marzo prossimo.
 

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