Western alla siciliana per due Italie diverse, Via Castellana Bandiera Vs Traks

Western alla siciliana per due Italie diverse, Via Castellana Bandiera Vs Traks
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Venerdì 30 Agosto 2013, 09:14 - Ultimo aggiornamento: 31 Agosto, 09:40

dal nostro inviato

Fabio Ferzetti

VENEZIA - Due western al femminile. Due film dominati da donne ostinate fino alla follia. Due viaggi ai confini del mondo o della ragione. Lontanissimi per linguaggio e impianto produttivo, ma vicini nella scelta di calare le protagoniste in situazioni tipicamente maschili. Nel notevole debutto cinematografico di Emma Dante, Via Castellana Bandiera, la partita si gioca da fermi. Siamo in un budello alla periferia di Palermo (che durante il film misteriosamente si allarga), sotto il monte Pellegrino. Qui si incrociano due auto, o meglio due mondi. Due Italie diverse in tutto e segretamente in guerra. Nella prima auto ci sono Rosa e Clara (Emma Dante e Alba Rohrwacher), borghesi, intellettuali, amanti. Nella seconda l’intera famiglia Calafiore, chiassoso ammasso di sottoproletari. Rosa e Clara sono di passaggio. I Calafiore invece in quella strada ci abitano. Quale delle due auto si scanserà per fare passare l’altra? Nessuna appunto.

IL DUELLO

Non si scansa Rosa, che è a Palermo solo per un matrimonio e ha rapporti complicati con la città in cui è nata e da cui è fuggita, figuriamoci se cede il passo a quei prepotenti e forse malavitosi. Ma non si scansa nemmeno Samira, la nonna dei Calafiore, alla guida della loro scassatissima Punto (Elena Cotta, un pezzo di storia del teatro italiano, dolce e insieme irremovibile). Una vecchia di origini albanesi che nel lungo prologo, muto e magistrale, abbiamo visto andare sulla tomba della figlia morta giovane. E ha troppo dolore, umiliazione e sradicamento sulle spalle per cedere. Intanto il tempo passa. La sfida tra Rosa e Samira diventa un affare di quartiere. Nascono fazioni e tifoserie, la tensione cresce, volano bottigliate, qualcuno è ferito (e alla vista del sangue tutti si dileguano). Ma poco a poco quel duello assurdo e insieme oscuramente necessario, come sono a volte le cose assurde, rientra in una paradossale normalità. I Calafiore rincasano a piedi, lasciando la nonna aggrappata al volante. Qualcuno prepara un piatto di pasta per tutti (geniale nella sua concretezza e violenza quella seppia disossata). I familiari, non potendo farla rinsavire, organizzano un giro di scommesse. Poi cala la notte, la partita si fa sempre più seria.

E ognuno resta solo, a confronto con le proprie verità più inconfessabili. Tratto dal suo stesso romanzo, il primo film di Emma Dante è un’allegoria calata nel mondo vociante e miserabile, simbolico e iperrealistico, della grande teatrante. Trasferito al cinema con un senso così materiale della luce, dello spazio, dei corpi, che annulla ogni sospetto di teatralità per trascinarci dentro le protagoniste, il loro dramma, la loro storia o mancanza di storia. Che naturalmente sono anche quelli di un’Italia eternamente (tragicamente) ostaggio delle proprie lacerazioni, e condannata a incarnarle nei suoi personaggi. Altri viaggi e tutt’altre sfide, nell’assolato, tradizionale, forse solo superprofessionale ma bellissimo Tracks di John Curran, ispirato all’avventura di Robyn Davidson (sullo schermo Mia Wasikowska, sempre brava ma un po’ adolescenziale per la parte).

Una giovane australiana che nel 1977 attraversò il suo paese a piedi con quattro cammelli selvatici (addomesticati da sé) e un cane. Quasi 3000 chilometri, da Alice Springs all’Oceano, senz’altro aiuto che quello di un giovane e cocciuto fotografo del National Geographic, a lungo visto come il fumo negli occhi per il suo sguardo così turistico, e degli aborigeni incontrati lungo la strada. Un Into the Wild al femminile (rieccoci) e a rovescio, che non si conclude con la morte ma con la rinascita della protagonista. La Davidson aveva già rievocato tutto in un libro, Orme (Feltrinelli). Ma Curran, oltre a un senso dell’avventura ormai fuori corso, illumina questo viaggio anche e soprattutto interiore con una finezza, un rispetto, un’eleganza davvero non comuni nelle grandi produzioni.

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