Alessandro Campi
Alessandro Campi

La protezione della salute viene prima del politichese

di Alessandro Campi
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Giovedì 24 Dicembre 2020, 00:04 - Ultimo aggiornamento: 26 Dicembre, 16:13

Una legge non scritta della storia ci dice che qualunque attività o impresa umana, anche la più ordinaria, anche la più nobile, anche la più necessaria al benessere collettivo, genera sempre la sua variante illecita e criminale. Non fa eccezione, in questa fase di emergenza globale, il vaccino anti-covid. Scoperto per salvare il mondo dalla pandemia, dopo una corsa contro il tempo dell’intera comunità scientifica e dell’intera industria farmaceutica, già si teme che possa diventare un business redditizio per truffatori e malavitosi (a partire da quelli in doppio petto, i più pericolosi). 

Presto potrebbero dunque trovarsi in vendita, sul mercato clandestino o attraverso la rete, versioni del vaccino semplicemente false o contraffatte, come già capita per moltissimi farmaci che la gente – vuoi la credulità, vuoi la paura, vuoi ormai l’incapacità a distinguere il vero dal falso – si ostina a comprare e usare. Ma il pericolo più grande, come si legge in queste ore, sono i furti nei depositi dove verrà conservato o magari – come nei film – gli assalti ai camion che lo trasportano. Da qui la decisione, anche in Italia, di stoccarlo in siti protetti e segreti e di farlo scortare dai militari durante i diversi trasferimenti.
Basta questo allarme per capire a cosa andremo incontro nei prossimi mesi e quale sforzo straordinario – dal punto di vista logistico-organizzativo ma anche in termini di sicurezza – dovrà essere messo in campo.

Con costi esorbitanti per le casse pubbliche (ma la salute collettiva non ha prezzo) e con un dispiego enorme di uomini e donne. Saremo all’altezza di un simile impegno, che per definizione implica metodicità, efficienza, capacità decisionale, professionalità, efficienza e spirito di coordinamento? Si spera di sì, si teme di no.
Si dà il caso infatti che la storia italiana e l’immaginario degli italiani siano un rosaio di eventi eccezionali, un continuo oscillare tra il maremoto di Messina, Caporetto, l’8 settembre, l’esondazione del Vajont, gli angeli del fango dell’alluvione del ’66, la lotta corale al terrorismo politico dopo averlo sottovalutato coccolato giustificato coperto e strumentalizzato, la corsa contro il tempo per salvare Alfredino caduto in fondo al pozzo, la preghiera collettiva per i morti di Nassirya, i terremoti del Belice, del Friuli, dell’Irpinia e dell’Aquila, la Marina militare che accorre generosamente per salvare i migranti nel Mediterraneo, i ponti ricostruiti a tempo di record solo perché nel frattempo sono crollati producendo molti lutti, ecc. 

Una sorta di antropologia della catastrofe – non priva di risvolti melodrammatici e d’un certo compiacimento come popolo capace di rialzarsi tutte le volte che cade – tale per cui bisogna sempre aspettare l’evento estremo e irreparabile per ricordarsi di essere una comunità, per scoprirsi industriosi e per tirar fuori il meglio di sé anche in termini morali. Laddove una nazione seria e moderna dovrebbe fare il contrario: l’ordinaria amministrazione invece che gli interventi straordinari; organizzare la propria vita collettiva confidando nella disponibilità di ogni suo membro attivo a svolgere quotidianamente e anonimamente il proprio compito, invece di affidarsi agli eroismi individuali che riscattano l’inerzia e la pavidità della maggioranza; prepararsi al peggio senza aspettare che si realizzi; muoversi in anticipo piuttosto che correre sempre ai ripari.

Nei prossimi mesi dovremo vaccinare almeno quaranta milioni di italiani (per due volte e dunque fanno ottanta milioni di vaccinazioni). Non si tratta solo di convincerli in larghissima maggioranza mettendo in campo testimoni d’eccellenza e argomenti più persuasivi della paura della morte o dell’infallibilità della scienza, dal momento che alla cultura dell’estremo gli italiani abbinano sempre più una mentalità di massa che oscilla perennemente tra scetticismo, disincanto e diffidenza verso ogni autorità o ordine costituito. Bisogna anche che un simile piano sanitario – al di là di quello che si trova scritto nei documenti ufficiali, che in Italia spesso sono e rimangono carta – venga gestito, nella pratica, in modo ordinato e puntuale, in piena sicurezza per tutti (a partire dagli operatori), tenendo conto anche dei possibili imprevisti, sulla base di responsabilità individuali sperabilmente chiare, avendo definito bene e in anticipo fasi, procedure e costi.

Lo stoccaggio, la conservazione e la distribuzione dei vaccini sull’intero territorio nazionale, per categorie e fasce d’età, per un periodo che potrebbe essere di un anno intero, implicano competenze logistico-gestionali che poco hanno a che vedere con la sanità e la salute.

Normale che si sia pensato di coinvolgere in quest’operazione senza precedenti l’Esercito, anche se sugli organi di informazione su questi temi si continua a sollecitare il parere di infettivologi e virologi invece che di qualche ingegnere gestionale o di manager esperti in logistica industriale. Toccherà invece ad alcune grandi aziende nazionali contribuire alla gestione del sistema informativo necessario al tracciamento delle dosi e al controllo delle somministrazioni. 

Tutto ciò dovrebbe in effetti tranquillizzarci. Se non fosse appunto che siamo nell’Italia dell’uno vale uno, del sarcasmo di Stato sulla competenza come qualità accessoria per governare, dell’anti-scientismo scambiato per vigilanza democratica, dell’inesperienza al potere. Se non fosse che la gestione dell’emergenza pandemica è stata in tutti questi mesi spesso segnata da eccessi di pressapochismo, di indecisionismo, di propaganda (ora forzatamente allarmistica ora inutilmente tranquillizzante) e di vacuo protagonismo politico.

E se non fosse infine che proprio mentre stiamo pensando, con qualche apprensione e molte speranze, ad una campagna di vaccinazioni di massa che forse potrebbe farci uscire da questo incubo distopico, abbiamo purtroppo una classe politica (di governo e d’opposizione) che ora va cianciando di rimpasti, di nuovi equilibri, di tavoli di concertazione, di verifiche e di quant’altro appartiene al repertorio classico del “politichese” nostrano, ora va minacciando – mentre ogni giorno si infettano migliaia di italiani e centinaia ne muoiono tra case e ospedali – improbabili crisi parlamentari e impossibili elezioni anticipate.

Il che significa che qualunque sforzo organizzativo difficilmente potrà riuscire nell’obiettivo (vaccinare ordinatamente milioni e milioni di italiani) se non preceduto da uno sforzo nel segno della serietà e delle responsabilità politiche. Non si può insomma chiedere ai cittadini di fare il loro dovere, di attenersi alle regole, di essere pazienti e disciplinati, se coloro che hanno responsabilità pubbliche non fanno altrettanto soprattutto in questo delicatissimo frangente della nostra vita collettiva. Quale momento migliore (anche se in realtà è il peggiore) per dimostrare di essere una comunità e di operare in vista dell’interesse generale. 

Per dividerci e contarci – essenza della politica democratica – avremo tempo. Ma ci vogliono appunto le giuste condizioni. Sotto una minaccia esistenziale condivisa le differenze per definizione si annullano o passano in second’ordine. E se proprio crisi deve essere, a questo punto più per dinamica inerziale che per la volontà dei protagonisti, che sia brevissima e soprattutto che ciò che viene (nuova maggioranza, nuovi ministri o nuovo leader) non sia peggiore di quel che abbiamo.

Qualunque cosa dovesse accadere nel Palazzo si pensi dunque, prioritariamente, a come realizzare al meglio la campagna vaccinale. Pensiamo a proteggerci, sempre che il virus non ci faccia lo scherzo tragico di mutare troppo. E pazienza se dovremo farlo in qualche palestra attrezzata alla bisogna, all’aperto in un parcheggio o nel piazzale disadorno d’una caserma, invece che in un accogliente padiglione coi fiorellini disegnato dall’archistar. E’ vero che siamo il popolo più elegante e azzimato del mondo, ma in questo momento – non si offendano né Arcuri né Boeri – non è davvero il caso di stare a compiacerci, dinnanzi al mondo, del nostro invidiabile e inarrivabile senso del bello. 

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