Alessandro Campi
​Alessandro Campi

Minacce esterne / Se i populisti non sono più il problema dell’Europa

di ​Alessandro Campi
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Lunedì 25 Marzo 2024, 01:03
Sicuri che il problema dell’Europa siano sempre e solo i populisti? E che la posta in gioco delle prossime elezioni sia frenare la loro avanzata elettorale per impedire che mettano a repentaglio l’Unione? 
Come si ricorderà, le precedenti elezioni per il rinnovo del Parlamento di Bruxelles (nel 2014 e 2019) sono state giocate dalle principali forze politiche su una contrapposizione netta: difensori dell’ortodossia europeista (popolari, socialisti, liberali, sinistra progressista e verde) versus nazional-sovranisti d’ogni tipo. Il pericolo (interno) da contenere era l’antieuropeismo delle destre (e, in misura minore, sinistre) radicali.
Nel frattempo le cose sono parecchio cambiate. E’ dunque difficile che nel giugno 2024 si torni a votare nei diversi Paesi europei sulla base di questo schema polemico-propagandistico.
Innanzitutto, i populisti odierni non sono più, per così dire, quelli di una volta (non è un’espressione di rimpianto, ma una soddisfatta constatazione). Sono cambiati nella misura in cui è cambiato il quadro storico generale. Di partiti e movimenti di una qualche consistenza che predichino l’abbandono dell’Euro e l’uscita dagli ingranaggi diabolici del Leviatano europeo non ce ne sono più.
L’antieuropeismo ideologico è divenuto, in molti casi, europeismo scettico-pragmatico, anche perché alcuni di quei partiti – un tempo di opposizione o minoritari nei numeri – nel frattempo sono cresciuti nei consensi, sono andati al potere o si sono avvicinati alle stanze del governo nei rispettivi Stati. L’Italia, da questo punto di vista, ha fatto scuola.
Da un lato, tali partiti hanno capito che gli interessi nazionali tanto sbandierati nei comizi e nei proclami si difendono meglio operando all’interno della macchina di governo europeo, piuttosto che minacciare di uscirne o starne orgogliosamente ai margini. Il modo migliore per cambiare è provare ad avere nelle proprie mani le leve del comando.
Dall’altro, hanno dovuto constatare che l’Europa del rigore finanziario, quella un tempo tanto vituperata come una sorta di algida matrigna, ha in parte significativa cambiato strategia (e, di conseguenza, immagine) dopo l’emergenza pandemica. Ha fatto debito comune, si è inventata il Recevory and Resilience Facility e ha inondato di soldi e finanziamenti i singoli Paesi membri. Quale sovranista rinuncerebbe alla possibilità di gestire risorse tanto ingenti?
Ma il vero punto è un altro. Se i populisti, nel frattempo scesi a patti con la realtà, fattisi cioè furbi e pragmatici, rischiano di diventare, nella campagna elettorale per le europee appena cominciata, un bersaglio polemico falso o semplicemente di comodo è per altre due ragioni. La prima: le minacce esterne all’Europa sono, in questa fase storica, ben più gravi e preoccupanti di quelle interne. La seconda: le parole spesso a ruota libera dei leader populisti, coi loro modi grossolani e sbrigativi, fanno meno paura, in questo delicato frangente della storia mondiale, dei pensieri a vuoto e della mancanza di strategia degli europeisti intransigenti, rispettabili e in doppio petto.
Le minacce esterne sono i conflitti armati endemici ormai arrivati ai suoi confini, la persistenza del terrorismo globale, i ricorrenti shock energetici, la strutturale pressione demografico-migratoria dal sud del pianeta, le crisi economico-commerciai ormai anch’esse ricorrenti. Fenomeni diversi ma correlati, frutto di un mondo geopoliticamente in ebollizione e politicamente fuori controllo, rispetto al quale l’Europa ha sinora mantenuto una posizione spesso passiva, incerta, oscillante, subordinata e timorosa. Minacce che appaiono amplificate dalla loro coincidenza con una situazione politica per l’Europa inedita e che si riassume in almeno tre fattori: il timore di un possibile allentarsi del suo storico vincolo di alleanza con gli Stati Uniti, il che significherebbe trovarsi sola dinnanzi a responsabilità e scelte che essa non è ancora in grado di assumere; lo stato d’assedio nel quale si trovano sempre più le democrazie liberali a fronte dei loro concorrenti autocratici; il vuoto di potere e di leadership che si è creato all’interno stesso dell’Europa con l’indebolirsi dello storico direttorio franco-tedesco, che avendo avuto un carattere sistemico certo non può essere sostituito dall’attivismo mediatico-diplomatico di qualche singolo e ambizioso capo di Stato.
E veniamo così all’ultimo e forse decisivo punto, reso drammaticamente evidente dalla recente riunione del Consiglio europeo: l’incapacità dell’Europa non tanto di parlare con una voce sola, secondo una ricorrente lamentazione, quanto di esprimere, sulle questioni più urgenti e decisive, una posizione politica al tempo stesso ferma, autorevole e rassicurante. 
Il modo con cui, ad esempio, in quest’importante occasione sono stati evocati scenari di guerra, futura o imminente, in grado di coinvolgere direttamente i civili europei, più che un’espressione di consapevole realismo è parso un gioco da apprendisti stregoni dominati dalla paura. Come sanno tanto di propaganda a uso interno certe manifestazioni muscolari e belliciste (à la Macron) il cui unico effetto, più che impressionare il nemico, è gettare nello sconforto i propri amici e cittadini. L’Europa post-pandemica, come detto, aveva fatto ben sperare persino i suoi storici avversari domestici. Nuovo metodo: messa in comune delle energie invece che veti incrociati. E obiettivi ambiziosi: la transizione ecologica, il rafforzamento della coesione sociale, la gestione condivisa dei flussi migratori. Ma lo scenario più recente sembra andare purtroppo in tutt’altra direzione. Basti pensare ai ripensamenti sulla rivoluzione verde, segno che forse s’era ecceduto in ottimismo, in ideologia e in spirito dirigista, o forse solo dettati dal timore di perdere voti. Oppure alla difficoltà a elaborare scelte di politica economica in grado di rilanciare su scala globale la competitività dell’Europa in un’epoca di grandi accelerazioni tecnologiche.
Ma che quel preoccupa soprattutto è la totale mancanza di visione su quali iniziative politico-diplomatiche intraprendere per porre fine a una guerra, come quella russo-ucraina, che rischia seriamente, come altri conflitti nel mondo, di incancrenirsi senza però trovare una soluzione, restando così una ferita aperta sempre sul punto di infettarsi. Fiori di statisti e capi di governo, del cui europeismo non è lecito dubitare ma forse sì, a questo punto, delle loro capacità ad affrontare senza nervosismi e con spirito prudente le sfide della storia, all’ultimo Consiglio europeo sono parsi quasi rassegnati all’immagine di un’escalation armata per la quale oltretutto nessuno Stato dell’Unione né l’Unione in quanto tale sarebbe pronta.
Si può sostenere, in modo allarmistico, che è urgente “mettere l’economia Ue su una base di guerra”, come ha sostenuto il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel, per poi precisare, non si capisce se in modo ironico, che “non bisogna impaurire la gente inutilmente”, come ha fatto l’Alto rappresentante europeo per la Politica estera Josep Borrell? Se si esprime con questa irresponsabile leggerezza il gotha dell’europeismo istituzionale, sicuri che il problema siano i populisti?
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