Luca Diotallevi
Luca Diotallevi

Poteri e democrazie/ La sovranità dello Stato e la libertà di pensiero

di Luca Diotallevi
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Mercoledì 14 Luglio 2021, 00:13

Sia i diritti che le leggi evolvono e questo non deve far scandalo. Allo stesso modo non deve far scandalo il tentativo di capire in quale direzione evolvono.
Richiamare la “lettera” dei testi qualche volta non è di alcuna utilità, qualche altra sì. La pura recriminazione non è di alcun aiuto. Al contrario, il ricordare è utile per comprendere la direzione della trasformazione in corso. Inoltre, ricordare serve a mostrare che nei processi sociali, inclusi quelli politici e giuridici, non vi è nulla di irreversibile.

Qualche giorno fa il Presidente del Consiglio Draghi ha affermato che il Parlamento è “sovrano”; il Segretario di Stato Vaticano cardinale Parolin ha dichiarato che la Chiesa cattolica condivide la “laicità” dello Stato, il Presidente della Repubblica Mattarella (parlando a Parigi) ha manifestato per l’Unione Europa l’auspicio di una “sovranità condivisa”.

Proviamo allora a ricordare. La sovranità è una invenzione cinquecentesca che fiorisce nella porzione continentale dell’Europa (a sud del Canale della Manica). Pretende di esercitare un potere sovrano una organizzazione che non si accontenta di una o più competenze, ma che ambisce alla “competenza delle competenze”, che ambisce ad essere “superiorem non recognoscens”. Storicamente una pretesa del genere è stata avanzata con successo solo da un tipo di organizzazione, lo Stato, e ciò si è verificato dal XVI secolo agli inizi della seconda metà del XX secolo nella parte continentale dell’Europa e nelle sue proiezioni coloniali. Uno Stato sovrano non tollera l’autonomia e le conseguenti interferenze di alcun’altra organizzazione economica, giuridica, religiosa o di altro tipo, se non nella misura in cui non sia lo Stato stesso a concedergliela e fintantoché non gliela revochi. Lo Stato sovrano pretende di essere il centro ed il vertice della società: può comportarsi in modo più o meno pervasivo, più o meno oppressivo, ma comunque resta l’unico centro e l’unico vertice della società. In questo senso preciso, con riferimento alla religione, lo Stato sovrano è laico.

Per quanto storicamente importanti, i regimi di sovranità e di laicità costituiscono eccezioni spazialmente e temporalmente limitate entro un processo di modernizzazione più antico e di maggiore ampiezza modellato da oltre mille anni da un costante incremento della differenziazione tra funzioni sociali (economia, politica, diritto, religione, famiglia, scienza, ecc.) e dalla istituzionalizzazione dentro queste e tra queste dalla competizione tra innumerevoli organizzazioni, differenziazione e competizione che producono società “senza centro e senza vertice”. Naturalmente anche in queste ultime (si pensi ai casi classici della Gran Bretagna e poi degli Usa) possiamo trovare organizzazioni politiche non cittadine o regionali con competenze piuttosto numerose (negli Usa il governo federale), ma senza alcuna pretesa di una “competenza delle competenze”, ovvero senza alcuna pretesa di sovranità. Se lo si vuole, anche in questo caso si può parlare di “Stato”, ma certamente non di “sovranità”. Per le società senza Stato (stateless societies, S. Cassese), le “interferenze” non sono un problema, ma, al contrario, la benzina che muove la società e l’energia che la mantiene aperta, libera da ogni potere prevalente (libera da ogni sovranità). Sul versante dei rapporti tra politica e religione in questo tipo di società non vige la laicità, ma la “libertà religiosa” (“non obbligare, non impedire”): “no” ad ogni imposizione politica di una confessione, “sì” al pieno esercizio pubblico di ogni opera che tragga ispirazione da convinzioni o relazioni religiose. Il primo emendamento alla Costituzione Usa (1791) lo chiamò “free exercise” (libero esercizio della religione in ogni campo sociale, non solo dei suoi atti devozionali!) e fu il fronte “federalista” (fatto da cristiani, ebrei e no credenti) che volle il “free exercise” proprio per impedire il formarsi di uno Stato sovrano ovvero per evitare che lo spazio pubblico fosse controllato solo dalla politica.

Ora, si dà il caso che i nostri costituenti non vollero uno Stato sovrano, bensì uno Stato che si limitasse ad essere organizzazione politica tra tante altre organizzazioni politiche e non politiche, e – coerentemente – quegli stessi costituenti non scelsero la laicità, ma la libertà religiosa.
Lo stesso fecero, circa venti anni dopo, e dopo grande travaglio, i Padri Conciliari durante il Vaticano II: no alla laicità (e no ad ogni confessionalismo), sì alla libertà religiosa (cfr.

Dignitatis humanae, dichiarazione del Vaticano II sulla libertà religiosa).

Lo stesso avevano fatto tra gli anni ’40 e gli anni ’50 Schuman, Adenauer, De Gasperi e Monnet immaginando la Ceca(radice della Ue di oggi) non come “prima pietra” di un super-Stato europeo, ma come “pietra tombale” sotto la quale seppellire definitivamente la forma-Stato proprio nella sua culla europeo-continentale, laddove essa era stata alla radice di due Guerre Mondiali in soli trenta anni (1914/1945).

È significativo che il termine sovranità compaia solo due volte nel testo della Costituzione italiana. Una prima volta all’art.1, dove si dice che l’Italia non è uno “Stato” (come affermava il fascismo), ma una repubblica (di cui lo Stato è solo un pezzetto) e che in questa repubblica la sovranità appartiene al popolo (non allo Stato) e che essa ha forme e limiti (dunque non è propriamente sovrana). La seconda – ed ultima – volta il termine “sovrano” ricorre all’articolo 7 (rapporti Stato/Chiesa). Lì la sovranità di cui si parla è quella esercitabile con riferimento ad una particolare funzione (“ordine”) ed entro un territorio (quello della Repubblica italiana) nel quale i due ordini (quello dello Stato e quello della Chiesa, e tanti altri) contemporaneamente insistono. Il che produce – come è evidente – non una sovranità, bensì un reciproco limitarsi di sovranità (ridotte in questo modo a competenze determinate), ovvero ad un regime di salutari reciproche “interferenze” le quali non compromettono affatto la indipendenza di ciascuno dei poteri interessati (lo Stato e la Chiesa), ma concorrono ad animare e rendere “aperta” (“repubblicana”) la vita e la forma della società. Non a caso, allora, è nell’articolo successivo, l’8, che appare la opzione per la libertà religiosa. (Del termine e degli istituti della laicità, invece, nella Costituzione italiana non c’è traccia.)

Può piacere e può non piacere, ma sia la Costituzione che i documenti del Vaticano II non sono altro che carta. È invece nella concreta vicenda sociale che poteri, formazioni sociali, i comportamenti personali possono ogni volta riprodurre o accantonare quello che una volta fu scritto sulla carta. A decidere della alternativa sono solo la forza relativa dell’un fronte e dell’altro.

Dal 1946 al concordato Craxi–Casaroli del 1984 la tendenza prevalente era stata quella verso un rafforzamento del regime di libertà religiosa. Dopo di allora, ed in particolare a partire dalla sentenza della Corte Costituzionale n.203 del 1989, si affermò una “sterzata” verso il regime di laicità. Ciò è avvenuto in politica, ma è avvenuto anche nella Chiesa cattolica: si pensi a molte delle posizioni tenute dalle Conferenze Episcopali nazionali in occasione del cantiere costituzionale europeo (con la preferenza per un regime di protezione statale della religione invece che per un regime europeo di libertà religiosa) e sta succedendo oggi in Vaticano nei rapporti con gli stati (tipico il caso della Cina) o nelle ricorrenti attribuzioni allo Stato della cura del bene comune in opposizione alla soluzione adottata dal Vaticano II per cui il bene comune va sottratto ad ogni monopolio.

Come avvenne per la I Guerra Mondiale, anche oggi la crisi economica (2007/2008) e quella sanitaria (2020-in corso) ci lasciano in eredità un ruolo enormemente accresciuto dello Stato. Che di qui si scivoli verso la sovranità (e la laicità o il confessionalismo) è un attimo. Non sembra contare granché il fatto che oggi di questo scivolamento dovremmo ricordare i costi tremendi.
Del futuro non si sa mai nulla, ma non è infondato temere che, se si sdogana il linguaggio della sovranità, saranno i sovranisti ad avvantaggiarsene.

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