Giuseppe Vegas
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Nuovi modelli/ Le ragioni (da indagare) di chi fugge dal lavoro

di Giuseppe Vegas
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Sabato 28 Gennaio 2023, 00:07

Da più parti ci si interroga su come sia possibile che in un paese dove le occasioni di lavoro non sono pane quotidiano, ad esclusione di certe specializzazioni, più di un milione e mezzo di occupati negli ultimi mesi abbiano deciso di licenziarsi. Il dato è impressionante, perché si tratta di circa l’8 per cento del numero totale di occupati attuali (poco sopra i 18 milioni).

Il conteggio andrà certamente depurato da tutti i casi in cui non si assiste ad un vero abbandono dell’attività lavorativa, come nel caso di passaggio dal lavoro dipendente a quello autonomo. È questo un effetto che discende direttamente dalla legislazione fiscale, che attualmente prevede un forte, irrinunciabile sconto, la cosiddetta flat tax, per chi lavora a partita Iva. Non mancano inoltre, soprattutto tra i giovani, i trasferimenti all’estero e la legge consente pensionamenti anticipati. Ma resta il fatto che abbandonare semplicemente il lavoro senza disporre di valide alternative rappresenta un fenomeno assolutamente nuovo e che induce a riflettere sull’orientamento che sta prendendo la nostra società.
In primo luogo, occorre domandarsi se chi lascia dispone comunque di mezzi di sostentamento, rendite o capitali, sufficienti, oppure si affida al destino.

La presenza di mezzi di sostentamento può derivare dalla passata attività di chi lascia il lavoro, oppure da quella delle precedenti generazioni. Nel primo caso, si potrebbe presumere che chi si dimette abbia goduto nel passato di entrate sufficienti per garantire un futuro sereno. Tuttavia, questa ipotesi male si concilierebbe con il desiderio di lasciare un lavoro che si presume alienante. Nel secondo caso, forse più diffuso, la decisione di dimettersi si basa sulla possibilità di far ricorso a beni accumulati presumibilmente da genitori o altri parenti. Entrambe le ipotesi rappresentano scelte individuali non discutibili, ma comportano almeno una conseguenza di ordine macroeconomico. Infatti, la somma utilizzata per il sostentamento personale verrebbe destinata a consumo e non a risparmio o investimento. Con possibili effetti negativi sul tasso di sviluppo del prodotto interno nazionale.

Degna di una più accurata riflessione è il caso in cui chi lascia lo faccia “al buio”. Si tratta di un’ipotesi che è apparentemente irrazionale, ma di cui occorre comprendere le motivazioni. In sostanza, chi espone se stesso, e magari anche la propria famiglia, al rischio di non disporre nel futuro di risorse sufficienti per vivere si carica di una responsabilità molto elevata. E pare eccessivamente riduttivo tacciare un simile comportamento come quello di chi semplicemente non ha voglia di lavorare. Molto più probabilmente, se si escludono casi marginali, è sintomo di un grave malessere sociale. Che può coinvolgere sia chi lavorava disponendo, a suo dire, di una retribuzione insufficiente a soddisfare i suoi bisogni, sia chi invece otteneva una paga adeguata.
Certo, se si guardano i dati delle dichiarazioni fiscali, non si può ritenere che la struttura salariale del nostro paese, tenendo anche conto dell’andamento dell’inflazione, sia in media sufficientemente appagante.

Soprattutto per trattenere i giovani qualificati. Basti pensare che non sono rari i casi in cui chi si sposta nel nord-europa può percepire anche il triplo di quanto otterrebbe in Italia.

Indice di un preoccupante grave malessere è però il caso di coloro se ne vanno pur godendo di un trattamento adeguato. Costoro, compiendo un atto ultimativo, dichiarano esplicitamente di rifiutare un sistema produttivo che reputano limitativo della loro libertà.

Fino ad oggi vigeva la convenzione in base alla quale il lavoro dipendente si reggeva sullo scambio tra il tempo del lavoratore e la somma di denaro corrisposta dal datore di lavoro. Quindi era conveniente lavorare fino a quando il sacrificio del proprio tempo veniva compensato da una entrata, indispensabile per ottenere i beni e servizi ritenuti necessari, che non si sarebbe potuta ottenere in altro modo.
Nel momento in cui invece una diversa cultura del consumo fa ritenere non più indispensabile una serie di beni, per esempio l’automobile per i giovani milanesi, o in cui si attribuisce al proprio tempo, che scorre inesorabilmente e non ci può essere restituito, un valore crescente, allora si vogliono ridefinire i confini di quello scambio.

Naturalmente la pressione ad intraprendere questa strada si è scatenata con l’esperienza del cosiddetto smart-working, che ha consentito a moltissimi di riappropriarsi di una parte consistente della propria vita privata, o di scoprirla per la prima volta. Tutto ciò ha finito per fomentare una sorta di ribellione non organizzata nei confronti delle modalità di funzionamento dei sistemi consolidati di organizzazione del lavoro. Ribellione che, sull’onda del risentimento delle classi medie in via di scomparsa, si va tramutando in una sorta di rivolta individuale che vuole definire un nuovo assetto sociale. 

Oggi resta da capire fino a che punto sia possibile assecondare questa tendenza, senza compromettere la produttività delle imprese e senza danneggiare il sistema economico. Ma far finta di credere che si tratti solo di un atteggiamento di persone “originali” rischia di replicare la miopia con cui si è affrontato il tema dell’astensionismo elettorale. Mettere la polvere sotto il tappeto è un espediente che funziona per poco tempo. Quando è troppa, è inevitabile inciampare.

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