Paolo Balduzzi
​Paolo Balduzzi

I robot al lavoro/ L'impatto dell'IA sulle pensioni degli italiani

di ​Paolo Balduzzi
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Lunedì 11 Marzo 2024, 00:23

Una delle sfide più intriganti per il genere umano è certamente quella posta dall’intelligenza artificiale. Lo è di sicuro per l’economia, il diritto, l’ingegneria. Ma lo è ancora di più per la politica. E non si può più dire che sia una sfida del futuro, perché rischi e potenzialità sono ormai piuttosto noti. 

Le questioni da affrontare sono tante e diverse ed è inutile farne un lungo elenco. Solo a titolo di esempio, basti ricordare le preoccupazioni relative alla tutela della privacy e della reputazione delle persone, ai rischi che la produzione di “fake news” porrà ai meccanismi democratici e, infine, alla distruzione di numerosi posti di lavoro. Per la prima volta, peraltro, con l’interessamento anche delle cosiddette occupazioni di concetto – e perché no anche artistiche – oltre a quelle più pratiche. I robot, in altri termini, non solo costruiranno automobili (ancora) più velocemente ma scriveranno anche articoli, ricerche, romanzi, poesie e chissà che altro. In sé, la sostituzione di lavoratori con la tecnologia non è certo una novità della storia industriale umana; anzi, è in effetti una sua peculiarità. Sin dai tempi delle prime macchine a vapore diffuse nell’Inghilterra del XVIII secolo, i movimenti di protesta non sono mancati. Ad oggi, “luddismo” è un termine che non richiede molte spiegazioni. Ed è proprio quello che viene in mente in occasione di notizie sulla diffusione di ogni nuova tecnologia. Anche se il tema della distruzione e sostituzione di posti di lavoro è interessante, non è comunque l’argomento principale di questa riflessione, che invece da esso prende spunto solo per concentrarsi su una conseguenza indiretta: il gettito fiscale. 

Nel nostro Paese, l’Imposta sui redditi delle persone fisiche (Irpef) raccoglie circa 200 miliardi di euro l’anno; di questi, oltre l’80% deriva dalla tassazione dei redditi da lavoro. Non solo: il sistema pensionistico italiano si regge ogni anno su oltre 250 miliardi di euro raccolti nella forma di contributi sociali, pagati da lavoratori e datori di lavoro. Se l’intelligenza artificiale diminuirà il numero di occupati, ci sarà da attendersi un sicuro impatto negativo sul lato delle entrate pubbliche nonché un probabile impatto positivo (cioè un aumento) sul fronte delle spese di assistenza. A differenza cioè del passato, quando i sistemi di tassazione erano principalmente basati sui consumi e i sistemi di welfare state erano pressoché inesistenti (si sono, di fatto, sviluppati tutti nel corso del XX secolo), oggi un’eventuale diminuzione dei lavoratori avrà un effetto devastante anche sul bilancio pubblico.

Il riferimento al nostro paese non è solo dettato da ovvie ragioni residenziali. L’Italia è infatti, tra i Paesi europei, quello che sta invecchiando maggiormente. Il fenomeno è noto e già da più parti, demografi ed economisti in testa, si levano richiami alla politica per intervenire in maniera efficace. In un contesto simile, l’ulteriore diminuzione della forza lavoro dovuta all’intelligenza artificiale potrebbe avere un impatto letale sui sistemi fiscali nazionali. Insomma, gli appassionati di fantascienza che vedono nell’intelligenza artificiale il pericolo di una rivolta dei robot contro il genere umano potrebbero rimanere delusi: al momento, sembra molto più probabile il rischio di una banale competizione sleale sul mercato del lavoro. Che tuttavia potrebbe avere comunque conseguenze non lontane da quelle immaginate da film e libri di fantascienza del secolo scorso. I governi, che quando vogliono ne sanno una più del diavolo, si stanno attrezzando per provare a tassare i robot stessi. O, più realisticamente, chi i robot utilizza e gode dei loro frutti in termini di brevetti, rendimenti di capitale, profitti. Non si tratta di una battaglia affatto semplice. E lo vediamo già oggi: quando ci sono di mezzo utili e capitali, le aziende e gli investitori conoscono mille modi per difendersi dai tentativi di imposizione. 

Non a caso, l’unica soluzione efficace è quella di una collaborazione tra stati e di un coordinamento globale per arrivare a una tassazione uniforme. Si tratta di una strada tutta in salita: le vicende della cosiddetta “global minimum tax”, un’imposta mondiale che secondo l’Ocse dovrebbe colpire i profitti delle multinazionali, dimostra almeno due cose: che un accordo è molto difficile da raggiungere e che l’aliquota di tassazione (il 15%) non potrà che essere molto bassa. In altri termini, un’eventuale imposta sui robot o sul loro utilizzo, nonostante gli sforzi, potrebbe comunque essere insufficiente per compensare i mancati introiti dalla diminuzione delle imposte sul lavoro. Impedire un processo che sembra inevitabilmente iniziato non può che essere controproducente: oltre ai posti di lavoro, si rischierebbero di perdere enormi fette di mercato e quindi quei profitti e quei guadagni di produttività che potrebbero, almeno parzialmente, compensare le perdite. Al contrario, meglio giocare d’anticipo: da un lato, cominciando già da oggi a cercare strumenti fiscali innovativi; dall’altro, e soprattutto, adeguando i curricula scolastici alle nuove sfide del futuro, così da cavalcare l’onda delle nuove professioni legate all’intelligenza artificiale e dai sfruttarne al meglio le potenzialità.

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